A QUALCUNO PIACE IL NULLA

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI

A QUALCUNO PIACE IL NULLA

Nel mio film dal titolo “Sai cosa faceva Stalin alle donne?” lascio dire a un imitatore di Baffone come il grande dittatore sovietico abbia “avuto il coraggio di mettersi al posto delle donne, degli anni e del Sommo. Era più che un eroe, un uomo che sapeva vestire. Mentre Krusciov non sapeva vestire”. Ennio Flaiano commentò nel “Frasario essenziale per passare inosservati in società”: “Tutto si riduce all’eleganza”. Da allora contro di me si è scatenata una rabbia cannibalesca. La critica militante aveva il proposito di uccidere la qualità, la fantasia, l’ironia. Non si poteva, negli anni ’60 e ’70, scherzare con la “gauche caviar”! Servendomi dell’ironia volevo dimostrare come i palpiti più fieri, da me condivisi in gioventù, si fossero inabissati in una pattumiera. L’acquasantiera ideologica tramutata in una sputacchiera conformista. Il primato del Festival di Venezia non avrebbe ceduto se agli autori fosse stata concessa la libertà di raccontare, anche in chiave grottesca, la fine di ogni speranza, di ogni compimento, di ogni promessa. Forse, se questa libertà fosse stata concessa con gli stessi ideali, non ridotti a dogma, si sarebbe potuto ritrovare la fiducia nel futuro e gli slanci di speranza. Può sembrare paradossale che Karl Marx avrebbe potuto considerare rivoluzionari e impegnati nella lotta al privilegio film come “A qualcuno piace caldo” e “Sabrina”, diretti da Billy Wilder; il grande regista viennese, allievo di Lubitch, sosteneva che questi due film sono sostanzialmente più “sociali” di tanto cinema impegnato. La critica militante italiana non se ne è accorta. Il cambiamento non può avvenire in maniera indolore. Questo Festival del cinema non c’è più perché è venuta meno la fantasia; non c’è più la carica di aggressività volta  al futuro e all’intrepida ricerca. Il cinema non può far finta di niente; dopo la caduta del Muro siamo assuefatti all’immagine che, partendo dalla universalizzazione della colpevolezza, in fondo assolve tutti. Il film di Giuseppe Tornatore “Baarìa” (sagra della famiglia dell’autore con al centro il padre comunista) dietro un tono nostalgico coglie questa dissoluzione in atto. Wilhelm Reich nel suo “Psicologia di massa” sostiene che l’umanità, dopo il comunismo, è affetta dalla “peste psichica”, imperniata sull’odio. Uno scenario apocalittico c’è in “The Road” di Viggo Mortensen e nel grottesco “Life during Wartimer” (“Perdona e dimentica”) di Todd Solondz dove il discorso sulla famiglia americana (tra pedofili, mariti gay, figli e bambini nevrotici) coglie la stessa dissoluzione. Con questi film potremmo affermare che il nichilismo ha trovato da tempo il suo altare permanente al Lido. A quanto l’olocausto del cinema? Con la paura di un distributore da conquistare o con l’incubo di un partito da soddisfare?
 
MAURIZIO LIVERANI