ARIOSTO NEL WEST

di MAURIZIO LIVERANI 

Trent’anni fa moriva Sergio Leone che ridette vita e slancio al cinema con i western all’italiana. Gli “spaghetti western”, con lui, persero quel tanto di dispregiativo che incarnavano e questo genere indossò un blasone di nobiltà. Servirono a distinguere il western all’italiana che piace da quello “autentico” di provenienza americana. Sergio vide nel western il simbolo dell’inconscio che è tormento dell’uomo e insieme fomento delle sue azioni più generose. Quando apparve, “Per un pugno di dollari” si impose all’attenzione di tutto il mondo come il crisma rigeneratore di un nuovo cinema. Se occorressero segni di inconciliabilità di giudizio tra Italia e Francia ecco – dopo quelli elevati per Rossellini – gli inni, gli alleluia della critica francese all’indirizzo dei film di Leone. Così calorosi entusiasmi, e così particolareggiati, non ebbe Antonioni, non ebbe Fellini né Visconti. In Italia, “C’era una volta il West” fu accolto come l’ultimo soprassalto del western all’italiana, quello che prelude all’estinzione; anche dai più benevoli tra i critici il film di Leone fu preso come una sorta di comunicazione “in extremis”, come un testamento. Che la sincerità, la verità, l’autenticità degli uomini di Leone possano davvero essere un simbolo di un mondo migliore, un mondo lontano dal nostro, in un clima senza storia è un discorso che nessuno, da noi, ha neppure tentato e sul quale, invece, i francesi hanno insistito per dare slancio alla loro sviscerata ammirazione. “Nemo propheta in patria”. Per “Il buono, il brutto e il cattivo” i critici d’oltralpe hanno parlato di fantasia ariostesca. Cosa era, dunque, successo? Il western di Leone ha il potere di semplificare tutto; porta i conflitti tra i personaggi fuori da ogni dimensione realistica. Nei suoi film non mancano elementi comici, satirici e grotteschi. Sono apparsi quando il pubblico era ormai stanco delle polarizzazioni intellettualistiche. Jean Luc Godard, per primo, se ne è servito. Ne “Il vento dell’Est”, nato alla macchia, il regista di “A bout de souffle” si è appropriato del genere per svolgere una polemica all’ultimo sangue fra l’Europa umanistica, rinascimentale e moritura e l’Est giovane, ribelle, vendicativo e avido di libertà. La vita è ricondotta all’urto tra il bene e il male, senza sfumature intermedie. I film di Leone portano il marchio indelebile della loro origine; sono delle opere “liriche” trapiantate nel West. Del resto, il regista romano, morto a sessant’anni, non ha mai nascosto le sue intenzioni. “Con il western”, ripeteva spesso, “si possono trattare tutti i soggetti classici già incontrati a teatro e nella letteratura di tutti i paesi”. Sergio Leone aveva debuttato nel cinema come aiuto regista di Pietro Francisci, un autore per i più quasi sconosciuto che con i suoi film mitologici ha salvato il cinema italiano da frequenti, difficili congiunture. Leone è stato il suo aiuto per “Le fatiche d’Ercole”. Per cinquantotto volte fu la spalla determinante di famosi registi, Antonioni compreso, finché un giorno Francisci, a bassa voce, gli disse: “A Se’ quann’è che te decidi a fa’ er regista!”. Leone, spronato da quell’invito, impostò i suoi memorabili western che hanno conosciuto altissimi incassi, salvando il cinema italiano dal dissesto.

MAURIZIO LIVERANI