FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
ASTUZIE FALLITE
Non più alleanze di vertici o di base; non più il “conciliarismo” palese e strisciante, non più “incontri” cattolici – comunisti. In certe aree depresse la sigla Pci non è stata cancellata ma contrabbandata come quella del partito cattolico italiano. Se questi sono i nuovi schemi dottrinari, non c’è da stupirsi che a farsene vessillifero sia stato più Gino Cervi che Mario Melloni il quale nel panorama politico italiano anticipò, anni fa, gli zelatori del materialismo cattolico. Da direttore dell’organo ufficiale della Dc passò a dirigere l’organo filocomunista “Paese Sera”, al posto dell’ebreo Fausto Coen. Agli esordi, neanche i più caldi fautori di Fortebraccio (nome di Melloni come corsivista dell’”Unità”) riconobbero al democristiano, divenuto comunista, erudizione e riflessività. “Chi sta bene non si muove”, dice un italianissimo proverbio. Alle Botteghe Oscure, negli anni ’70, furono prodighi di sorrisi e di compensi; poiché non erano chiare le ragioni della sua abiura non si rinunciò a una certa cautela. In questa funzione di corsivista ironico, Fortebraccio, ex Mario Melloni, assomigliava tanto a quelle scimmiette che nel circo si spulciano tra un’esibizione e l’altra. Dal trapasso nelle file comuniste, Melloni si attendeva molto di più. Una certa primitività e rozzezza psicologica gli avevano dato l’illusione che, mescolandosi con il Pci, offriva la propria mediazione mistica, una sorta di prostituzione sacra. Partiva da queste premesse: il cattolicesimo ha una morale, ma ha perduto una dottrina sociale, mentre il comunismo ha una dottrina sociale, ma non ha una morale. Temperamento impetuoso, Melloni intendeva fare da paralipomeno nel connubio tra Chiesa e comunismo, anticipando molti suoi correligionari, alcuni dei quali vedevano in questo innesto la palingenesi della fede cristiana. Vivo Palmiro Togliatti, il Pci non attribuì sostanza e dignità alle idee di Melloni il quale, anzi, agiva in cambio di incarichi. Informato con forte anticipo di certe “svolte” che bollivano nella pentola cattolica, Fortebraccio cercò, abbandonando il campo cattolico di assicurarsi vantaggi di tempo e di sorpresa. A Togliatti, i suoi sembravano mezzucci, ma, poiché serviva al tornaconto comunista, si cercò di sfruttare al massimo il suo caso. Non scherziamo su questa sortita di Fortebraccio anche se la tentazione è difficilmente reprimibile. Il Pci, in Italia, ha tentato tutti i sentieri come una talpa che crede di sapere dove la porteranno i suoi sotterranei mutamenti di rotta. Il partito ha la sensazione di essere caduto in un gioco infernale condotto dal Vaticano che mimava una evoluzione illudendolo sulla possibilità di un “incontro storico”. Livido di rabbia, il Pci dette sfogo a tutto il suo rancore per essere stato preso in giro, per essere caduto nel tranello. La Chiesa del Concilio Vaticano II, del dialogo, la Chiesa di Giovanni XXIII diventò, improvvisamente, di nuovo un nemico di “classe”, l’alleata delle caste privilegiate, degli sfruttatori, dei padroni. L’anticlericalismo messo in soffitta venne rispolverato in maniera virulenta; riaffiorò con la penna di un ex democristiano il quale, dimesso lo “stifelius” dell’ironista, indossò la casacca del mangia-vescovi con i ferri vecchi della contrapposizione tra Chiesa dei ricchi e Chiesa dei poveri. “Per i poveri”, scrisse Melloni, “il Vaticano non perde mai occasione di pronunciare parole solidali e commosse, ma questi detti si levano in saloni stupendi fra tesori di incalcolabile valore; quale credito possono trovare presso coloro a cui sono stati indirizzati, se basterebbe che chi li pronuncia vendesse una sola delle sue vesti e cedesse una sola delle sue stanze per alleviare miserie alle quali non sa porgere che una inutile consolazione?”. Con questo linguaggio cencioso, Fortebraccio dette il via alla crociata del Pci contro il Vaticano e contro il pontefice.
MAURIZIO LIVERANI