BILLY E MARILYN

di Maurizio Liverani

Verso questo potere che diventa, giorno dopo giorno, regime, crescono anche le proteste dei cineasti italiani, bocciati ai botteghini delle sale dove si proiettano i loro film. Periodicamente si riapre questo capitolo che getta una fastidiosa luce sulla nostra cinematografia. Ricordate le argomentazioni del critico “negativo” del film di Fellini “8½” che cerca di dare fiducia al regista depresso il quale confessa a se stesso e alla stampa: “Non ho niente da dire; ma lo voglio dire lo stesso”? L’urgenza narrativa dei nostri autori è la stessa, ma non offre i risultati splendidi offerti dal film di Fellini. Il non avere niente da dire è un dramma; c’è anche una bellissima poesia di Marino Moretti – nella raccolta “Poesie scritte col lapis” – a ricordarcelo. Il tratto toccante di questi versi dice: “Mamma, sono un poeta, ma non ho niente da dire”. Era questa la condizione in cui si trovava in quel momento Federico Fellini dopo che un “pezzo da novanta” della falce e martello si era adoperato in ogni modo per sabotarlo al Festival di Mosca. Il “niente da dire” lamentato dal regista-personaggio di “8½” non era l’esaurirsi di una ispirazione né sintomo di sterilità creativa. Era la conseguenza del venir meno di ogni punto interrogativo sulla sua vita, sull’uomo, sulla società, soprattutto in una comunità come la nostra costellata di divieti. Da noi il dire e il domandare finiscono per toccare punti delicati del mondo politico e intellettuale che si risentono per qualsiasi appunto e riescono a fare intervenire la sotterranea censura che impedisce ogni novità. Per esempio Alberto Sordi trovò facile aggirare tanti divieti con il film “Incontri proibiti” dove conduce un grottesco gioco ma incorse nello stesso flop di altri film italiani più audaci. Dunque, anche con i fondoschiena si possono dischiudere davanti allo spettatore steppe e steppe di noia? E’ quello che avviene in televisione con le donnine disposte a gesti armoniosi e squisiti. Se anche il corpo non guida lo sguardo verso il divertimento o l’eterno e non è presagio di cori celesti, di imprecisi piaceri come riesce a fare Billy Wilder in “A qualcuno piace caldo”, vuol dire che è l’estro cinematografico a mancare. Marilyn aveva un corpo quasi escluso dall’umanità, e sopravvive ancora come mito; il carattere astrale è attribuito anche dallo sguardo pervaso di fugacità. Ma i registi che l’hanno diretta come Wilder sono capaci di vedere il suo corpo “impastato di cielo”. A Flaubert sarebbe piaciuta come eroina del suo romanzo; soltanto a vederla si scorge una tenerezza piena di protezione. Altri registi si sono serviti di lei ma per un proprio egoistico personale scopo. Non è lo stesso Freud a sostenere che il richiamo verso quelle rotondità gemelle è una sfida?

Maurizio Liverani