di Maurizio Liverani
Continuiamo a vivere nell’illusione che il nostro Paese sia ammirato e invidiato per intraprendenza e genialità. Qualità che hanno prodotto, nei secoli passati, opere invidiabili e che oggi vengono ammirate da milioni di visitatori. Ci si guarda bene, però, dal porre l’accento su un fatto: chi ha dato vita a tanta bellezza è vissuto almeno cento anni fa. Non si può vivere nell’illusione che l’italiano sia quello di un tempo. Dalle pagine di D. H. Lawrence, accanto agli elogi per l’Italia di allora, troviamo giudizi negativi. In “Mare e Sardegna”, lo scrittore inglese ci rimprovera di essere privi di anima e di spiritualità. Questo sfogo di innamorato deluso risale al 1921. Gli antichi archetipi sono decaduti. Ci si accontenta di sub-archetipi, adatti alla temperie attuale dominata da mezze figure. Lawrence, se fosse in vita, ripeterebbe gli stessi giudizi negativi. Chi tesse continuamente l’elogio sperticato del fascino dell’Italia trascura il particolare che in questi anni, ormai raggruppati in più di un secolo, forse a causa della crescente contrarietà della vita economica, si è attenuata la vocazione per il culto del bello. I grandi artisti del passato non erano sopraffatti dall’ansia di aggregarsi nei partiti che dettano le regole del vivere. Queste istituzioni hanno fatto discendere verso il basso personalità artistiche e creatori in genere che senza l’ingerenza della politica avrebbero potuto esprimersi liberamente sottraendosi ai vari diktat dei detentori del potere. Questo processo, che definiremmo decadenza, è cominciato con missilistica progressione dopo l’accentramento creativo nella Capitale. Roma capitale ha espresso l’ambizione di essere l’ago della bilancia di ogni processo ideativo. Mentre i talenti si addensavano nel centro della romanità, su questo convergevano anche i politici di professione che, grado a grado, hanno voluto mettere nelle loro mani l’artisticità istintiva, purché libera, di tanti italiani. Dell’ambizione di chi era ed è dotato di istinto creativo la politica si è servita come di un abito, di un ornamento. Il prestigio mitico della Roma capitale dell’arte è stato assorbito dalla strategia di chi voleva, e vuole, avere in mano le leve di comando. In maniera felpata e con ben dissimulata protervia, la creatività si è rinchiusa nella serra ideologica. Le grandi risorse individuali del Paese sono state travolte dalla “macchina del fango”, così la definisce Umberto Eco nel titolo di un suo libro, costringendo anche i migliori talenti ad accettare i cilici del potere. Una notizia incoraggiante ci dice che molti deputati e senatori non siederanno più nei banchi delle due Camere. Nella lista ci sono personalità che hanno spadroneggiato per anni con il piglio di leader e con la tipica villania del politico italiano. Direte che questo è un modo qualunquistico di vedere le vicende politiche. In effetti lo è, ma bisogna subito precisare che la nostra classe politica ha sempre voluto far credere di essere intrisa di principi e di ideali. Gli italiani si sono accorti tardi che dietro di essa non c’è nulla; che da tempo la convenzione, la routine hanno svuotato quei beni (ideali e morali) di qualsiasi valore.
Maurizio Liverani