CANONIZZAZIONE POST MORTEM

di Maurizio Liverani

I “maestri” della repressione sono sempre all’erta. Il loro compito è di impedire che un’opera letteraria o cinematografica, sgradita alla sinistra, approdi alla conoscenza del pubblico. Una disattenzione dei maestri della censura è stato il successo dello scrittore Giuseppe Berto. L’autore del “Male oscuro” -etichettato di destra per aver miliato giovanissimo, come Giorgio Bocca, Dario Fo, Ugo Pirro, Davide Laiolo, nella Repubblica sociale- sfuggì alla vigilanza grazie a una prefazione di Carlo Emilio Gadda, l’autore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”. Il Gran Lombardo, per il sostegno dato allo scrittore “repubblichino”, ricevette telefonate e minacce anonime. Negli annali dell’odio letterario il nome che ricorre più spesso è quello di Ennio Flaiano. L’autore di “Un marziano a Roma” era in sintonia con Pier Paolo Pasolini il quale in “Petrolio” scrive: “La malafede è ideologizzata come elemento del modo d’essere colti e addirittura poeti”. Pur di assolversi, i maestri della repressione eleggono, dopo la morte, “padri della patria” Fellini e Flaiano, in vita non amati dallo Stato che li canonizza “post mortem”. Chi non sta al gioco dell’immonda commedia è classificato fascista. Meglio, molto meglio essere classificati fascisti (“se lo dicono tra di loro anche i fascisti”, scriveva Flaiano, “quando non sono d’accordo sulle alleanze”) che partecipare al carnevale in cui i “cari estinti” sono adoperati a fine di parte. Il solo che sia riuscito a restare un “milite ignoto” è Ennio Flaiano. Sminuire tutti gli uomini di valore; niente mantiene meglio lo status quo. Federico Fellini stesso non ha mai voluto ammettere che senza la creatività di Flaiano rischiava sempre di essere un regista di superficie. La “flaianità” indeboliva, nel regista della “Dolce vita”, la convinzione di essere l’unico artefice delle sue opere. Cercava in ogni modo di oscurare il contributo dell’”avversario”, indispensabile ispiratore. Una dimostrazione di vera e propria ingratitudine l’offrì con la pubblicazione delle sceneggiature. Federico si attribuisce per intero i copioni depennando Flaiano, Pinelli e Brunello Rondi. La frattura avvenne quando Flaiano si rifiutò di riversare su Giulietta Masina gli sgomenti che aveva previsto per Mastroianni in “Giulietta degli spiriti”. Senza la magia di Flaiano, il film apparve un concentrato di banalità. La conferma dell’ostilità, negata dai mendaci biografi di Fellini e Mastroianni, c’è offerta dall’epistolario (“Soltanto le parole) che contempla una lettera nella quale Fellini scrive: “Desidero che il nostro delicato, convalescente sentimento di amicizia non abbia ricadute”. Flaiano era in una clinica in attesa del passo estremo. Aveva sempre il terrore di confondersi con la politica; terrore condiviso da Mastroianni e Fellini. Tutti e tre non volevano farsi immortalare come “tanti disperati intellettuali ansiosi di essere scambiati per quello che non si è, per rivoluzionari”; ha lasciato scritto Flaiano.

Maurizio Liverani