di MAURIZIO LIVERANI
L’aspetto disgustoso di ogni egemonia è che gli egemonizzatori, conquistato l’intero panorama culturale, elimino ogni “diversità”. Questa frenetica fretta di annacquare ogni antitesi altro non è che il proposito di estendere all’infinito il confine dell’egemonia, cioè la conquista del potere politico culturale. L’egemonizzazione culturale impone che il cinema italiano gareggi con la stampa quotidiana e periodica, insaporando problemi assai gravi con falsità e banalità di ogni sorta. Prima di toccare l’ultimo degrado il festival di Venezia ha dato notorietà a registi come Kuroshawa, Wenders, Buñuel. Ci sono ancora allievi di Buñuel? Ci sono, ma non appaiono al Lido. Il Futurismo, il Surrealismo sono padri di tutti i movimenti dell’arte europea. Il cinema espressionista è più pensabile? Un certo Kafka ha dato a Orson Welles l’estro per un capolavoro, “Il processo”. C’è più traccia per simili opere nel nostro festival? Per ricordare grandi nomi illustri dovremmo cominciare da Thomas Mann che al Lido, all’Hotel Des Bains, frequentato da Marcel Proust, concepì “Morte a Venezia” da cui Visconti ha tratto un bellissimo film. Il primato di Venezia ha ceduto. Questa festa del cinema non c’è più; non c’è più la carica di aggressività volta al futuro e in trepida ricerca. Il fallimento professionale di autori come Vittorio De Seta, dello scomparso Augusto Tretti e di tanti altri coincide con il successo dei lottizzati. Grazie alla sparizione partitica, la selezione professionale ha cessato di esistere. Il meccanismo di questa professione si è inceppato a causa delle sovvenzioni; non esiste la figura del produttore; quelle che ricorrono nei titoli di testa delle opere sono appaltatori di soldi dello Stato. In televisione è stato licenziato, anni fa, un poveretto che ha “ingrossato” una nota spese e si dà ampio spazio a chi dall’appalto ha tratto una quota con cui ha comperato una squadra di calcio, un ristorante o avviato una florida impresa edile. La borsa del cinema, come quella degli affari, segna cali vistosi. Il cinema a Venezia fa pensare a una cosa vecchia, ormai di scarso interesse. Dunque, basta? Tutto è finito con lo sfasciarsi dell’idea del cinema come arte; il ruzzolone del suo angusto prestigio nella pattumiera della storia. Del cinema-arte resta soltanto un ricordo, un ricordo di una coabitazione forzata tra creatività e commercio. Tempo fa, la rivista specializzata “Box Office” ci ha informato che dal ’94 al 2003 trecentosessantadue opere, realizzate con gli aiuti statali, hanno incassato complessivamente settantatre milioni di euro. Il video è caduto così in basso da consentire al cinema italiano una lieve ripresa. Il germe corruttore è la televisione stessa. Si cerca di correggere questo sopruso. Nel 2010 sperticati elogi sono andati a un attore premiato a Cannes; nel ritirare il premio ha dato una piccola reprimenda agli uomini di potere. Per dire che un film non vale, tra qualche tempo, basterà ricordare che è sponsorizzato dalla tivvù. Ora che la pattuglia dei doppiatori si è assottigliata, i responsabili dei Beni Culturali potrebbero imporre di proiettare i film stranieri in lingua originale con i sottotitoli, ma la televisione non troverebbe conveniente questa scelta. Si continuerà con il solito andazzo; si continuerà a differire, a temporeggiare.
MAURIZIO LIVERANI