di Maurizio Liverani
Si avvicina un altro festival di Venezia e si rinnova il lamento: il cinema italiano è in crisi. Si accusano i produttori di spremere gli attori del momento, arraffare qualche milione di euro e passare subito a una nuova pagliacciata. C’è chi lamenta l’assenza di autori; si scambiano per soggettisti e sceneggiatori un manipolo di scribacchini e si pensa di fare centro. E’ dai tempi della grande stagione del cinema italiano che l’autore viene cercato. Cinecittà è una fucina di film mediocri. Umberto Bossi, quand’era leader della Lega, ne propose la vendita per sanare il debito pubblico. Una svendita che avrebbe messo sul lastrico le migliori maestranze del cinema mondiale. Risultato: Cinecittà, che è grande quanto una città, deve sopravvivere; ma bisogna immetterci, oltre alle maestranze, cultura e fantasia. Subito dopo la guerra, sia a teatro sia al cinema, il pubblico cominciò a interessarsi alla sua storia quotidiana. Questo interesse durò poco. Appena il tempo di accorgersi che il rinnovamento teatrale e culturale procedeva per strappi e soprassalti, con troppo impegno polemico a una direzione. Incapace di graduare i rinnovamenti, teatro e cinema subirono lo svuotamento di idee e contenuti. Si è enfatizzata allora l’opera della regia, ignorando che un film nasce da un’idea originale ben sviluppata se non ripercorre i soliti canoni. A far ricadere lo spettatore nell’indifferenza è stato decisivo il peso delle resistenze politiche precostituite. In questi giorni gira un opuscolo che qualifica questo cinema scadente come comunista. Possiamo accettare questa tesi per comodità di polemica ma è un alibi che non regge. Lo svilimento di questo cinema è un bene o un male? E’ un bene se serve a smascherare quel maledetto imbroglio in cui più che la “competenza” conta l’”appartenenza”. Il cinema come lo si pratica da noi è quasi sempre nemico della novità; la novità è frutto di un ingegno indipendente e dell’indipendenza si ha paura, a destra e a sinistra. Immaginate un autore che tracimi gli argini del controllo statale e che incoraggi l’insubordinazione alle direttive di chi detiene il potere nello spettacolo. Il cinema è costretto a percorrere sempre gli stessi binari a causa delle sovvenzioni. L’autore dell’opuscolo dovrebbe ricordare che per qualche anno il cinema è stato in mano della destra: non sono stati trovati nuovi approdi rispetto a quelli della sinistra. Tecnicamente avveduti, i nuovi registi si muovono, purtroppo, sempre sulla stessa scia; mancando di una vera ragione, i loro film non lasciano trasparire neppure per un momento alla coscienza dello spettatore la loro “necessarietà”. Le disgrazie del cinema italiano sono legate alle sorti dell’Enic che, alle soglie degli anni sessanta, nel momento più propizio del cinema, cedette le sale cinematografiche dello Stato per trasformarle in approdi mercantili. Il sindacato rimase inerte; fu di una riguardosità estrema. Solo il rimpianto Renzo Trionfera – che per l’”Europeo” aveva svolto un’inchiesta – si accorse che i famosi partiti dalle “mani pulite” dovevano avere, per lo meno, i piedi prensili come le scimmie.
Maurizio Liverani