DA MUSCO A FELLINI

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI

DA MUSCO A FELLINI

Il milite ignoto della “Dolce vita” è stato Peppino Amato,  produttore esecutivo del film. Riuscì a convincere Angelo Rizzoli senior, il grande editore, che la pellicola di Fellini faceva al caso suo. Rizzoli cercava di investire i suoi guadagni in un’attività passiva, come credeva che fosse il cinema, per tacitare le pretese del fisco. Voleva, cioè, produrre un film che non avesse successo.  Incontrandosi con Fellini, Amato gli pose questa domanda: “Hai cuore?”. Domanda al quale il regista rispose imbarazzato: “Credo di sì”. “Va bene”, insistette Amato, “ma quanto?”; e aspettò la risposta che fu naturalmente un “Molto”. Amato lo incalzò concludendo: “Bene, farai strada”. Senza conoscere la trama, convinto che il film dovesse intitolarsi “Via Veneto”, non “Dolce vita”, non riusciva a capire l’insistenza del regista per questo secondo titolo. Suggerì un compromesso: “Via Veneto, la strada della dolce vita”. Ad Amato, Ennio Flaiano ha dedicato un libro dal titolo “Il glottologo” in cui sono elencati tutti i suoi strafalcioni. Il produttore napoletano era famoso per una frase: “Sono tutti alcolizzati contro di me”. Era persuaso di usare decorosamente sia il francese che l’inglese. Vittorio De Sica mi raccontò che Amato riuscì a spiegare la trama di “Assunta Spina” a un noleggiatore francese esprimendosi in un lingua inedita franco-partenopea  in cui la frase “E Napoli esplode in tutti i suoi colori” diventava “Naple scopple in tutta sua couleur”. Per Amato la Ekberg diventava, di volta in volta, la “Ainkeb”, la “Usbeg” e via dicendo. Rossellini diventava “Rossellino” e Fellini “Fellino”. Tornato dall’America, dove invece di fare film si improvvisò pasticcere, scoprì la sua vocazione: fare il produttore con il denaro degli altri. In un periodo di sfiducia verso il cinema riuscì a galvanizzare alcuni industriali e indurli a investire capitali in un film che sancì il successo di Angelo Musco. A Rizzoli disse: “Con il mio talento e il vostro denaro faremo grandi cose”. Una bella mattina, con il cappello alla ventitré che ingigantiva le sue qualità di “guappo”, incontrò Fellini che, sconfortato, gli confessò di non trovare un produttore per il suo film. “Faccio io”, lo rassicurò Amato, “lascia fare a me, non ti preoccupare”. Solo il simpaticissimo Rizzoli, noto come il “cumenda”, poteva avere come massima aspirazione l’insuccesso. Via Veneto, la grande strada romana, era il mondo di Peppino; intitolare con il suo nome un’opera importante equivaleva renderle omaggio. Tentò tutti i sotterfugi per convincere Federico a cambiare titolo senza riuscirci. Quando sessant’anni fa apparve sugli schermi la “Dolce vita”, la critica marxista accusò il film di conoscere un “successo di evasione”. Il punto debole della storia, scrisse il “Contemporaneo”, era la cattiva letteratura del soggetto, opera di Ennio Flaiano. Al caffè Rosati, a piazza del Popolo, per diverse mattine Fellini mi attendeva, soprattutto, per chiedermi: “Quand’è che mi intervisti?”; voleva raccontarmi la trama del film che intendeva girare. C’era, infatti, il divieto assoluto delle Botteghe Oscure di dare risalto a questa pellicola “reazionaria”. Per aggirare la censura del partito decisi di rivolgermi direttamente a Palmiro Togliatti il quale mi tolse da ogni imbarazzo dicendomi: “Fai come vuoi”. Intervistai Fellini nella sua auto girando un intero pomeriggio per le strade di Roma. Due giorni dopo pubblicai su “Paese Sera” il colloquio, anticipando così tutti gli altri giornali. Ripetei lo “sgarbo” anche all’uscita del film cui si accompagnò la mia recensione favorevolissima. Quando la “Dolce vita” fu presentata al Festival di Venezia furono tacitati tutti gli avversari di Flaiano e di Fellini. Dopo lo strepitoso successo della pellicola, Rizzoli andò su tutte le furie accusando Peppino Amato di averlo deluso. Tra esaltazioni e denigrazioni, si ingigantì la fama di Federico Fellini.
MAURIZIO LIVERANI