DIMENTICARE MARCELLO

di Maurizio Liverani

Il 19 dicembre del 1996 moriva Marcello Mastroianni. Per altri attori meno noti avremmo assistito a una affannosa rievocazione dei suoi meriti, dei suoi film. Invece, silenzio assoluto. I burocrati della televisione, probabilmente, non amano onorare attori illustri. Un grande come Salvo Randone se ne è andato in silenzio e, solo dopo al morte, si è appreso che viveva con il contributo striminzito della legge Bacchelli. Si espongono al successo le rievocazioni di attorucoli minori, forse perché intristiscono di meno. L’informazione sembra terrorizzata nel dover rendere omaggio a personaggi illustri dello spettacolo; sono troppo soffusi di malinconia e turbano l’incessante svago. Marcello Mastroianni, dopo un inizio come “poveri ma belli”, diventò, alla scuola teatrale con Luchino Visconti, uno spirito eletto. Invitato sulla scena dal “nostro” Anton Cechov per eccellenza: Ennio Flaiano. Denis Diderot, in un famoso saggio sull’attore, sostiene questa teoria: “quanto è maggiormente privo di personalità, tanto è più facile per lui acquisire quella dei personaggi che interpreta”. Marcello, invece, non era un vuoto scafandro; il vero pigmalione, dopo l’iniziazione di Visconti, è stato Flaiano, non Fellini. E, come Flaiano, non ha mai manifestato l’intenzione di entrare nei coni d’ombra dei canonizzati. Se pensiamo a Mastroianni, a come lo abbiamo conosciuto in anni e anni di frequentazioni, c’è da provar vergogna a leggere, alla sua morte, che “la destra non abbia reso il doveroso omaggio allo scomparso”. I pedanti e gli ipocriti si sono messi all’avanguardia quando il defunto non poteva più trovare il coraggio di rintuzzare le loro offese che lo volevano reazionario. Perché non ricordare che cercò, disperatamente, conforto nell’”esilio” parigino. Amava Roma, ma non poteva tollerare il marciume giornalistico e politico che l’ammorba. Le interviste che rilasciava dall’estero avevano una durezza da lasciar stupiti. Come quando negli Stati Uniti lanciò il lamento: “mi vergogno di essere italiano”. Piagnisteo poi passato di bocca in bocca sino a Norberto Bobbio, Indro Montanelli, Umberto Eco. Aveva annotato (me lo mostrò nel ’72) un epigramma di Flaiano che dice: “Appartengo alla minoranza silenziosa, sono di quelli che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? E’ improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire. In questo paese che amo non esiste, semplicemente, la verità”. Oltre che un grande attore, era un attento osservatore, un san Tommaso inveterato; sollevava i veli sotto cui si celano i misteri della società. Preferiva un concerto di Ughi o una direzione di Muti o di Abbado; momenti di eccezione isolati. Con questo mondo dello spettacolo che andava degradandosi non si accordava più. Quando uscì “La dolce vita” i moralisti furono pronti a rimproverare a Fellini e a Marcello di voler deviare, sospinti dall’”odiato” Flaiano, il discorso neorealista verso il soggettivismo. Il modo di vivere dell’attore divenne, con il passare degli anni, un modo di assistere alla vita; di fare da spettatore curioso. Collocava un cuscinetto tra sé e gli altri non per ansia di distacco, ma per rinuncia alla partecipazione. Il ricordo di Marcello Mastroianni diventa, oggi, imperioso.

Maurizio Liverani