di Maurizio Liverani
“Da quando è nata la figura del regista, nessuno ha più insegnato a recitare. Non certo i registi che non lo sanno fare”. Così Ernesto Calindri (foto), poco prima di morire, giudicava i registi italiani, i quali, proprio in quei giorni, davano duri giudizi sui nostri attori avvolgendo tutta la categoria in un’atmosfera fredda come una soffitta a settentrione. Il compianto attore definiva un gioco “privato” gli spettacoli diretti da nomi risonanti della regia. Tutto sulla scena, come nelle rappresentazioni di Ronconi e Strehler, era un gioco lussuoso e non curante che del lusso cui andava il giubilo estetico di qualche critico, ma esposto alla tramontana della noia. Questi registi chiedevano, osservava Giorgio Pressburger, ai loro giovani attori l’imitazione di un modo di usare e distruggere la parola. La parola è sottomessa alla messa in scena; invece esiste la parola che riveriamo nei grandi attori teatrali di un tempo come arte schietta e alla quale è affidato il compito di divulgare, tramandare, imporre il pensiero. Il ministro della cultura dovrebbe riflettere e mettere soprattutto un freno alle sovvenzioni a pioggia allo spettacolo. Va ricordato che i ministri precedenti erano assai spesso assenti, ad esempio, agli spettacoli della Scala. Il violinista Uto Ughi rimproverava l’ex ministro Walter Veltroni ricordandogli che “non esistono soltanto cinema e canzonette”. Gli risultava che il ministro d’allora avesse assistito al suo primo concerto quando il compianto Abbado e i Berliner suonarono a Santa Cecilia Si è sempre avuto la sensazione che i titolari dello spettacolo abbiano un’ombrosa diffidenza verso la musica in sé e verso tutte le forme elitarie. Con Dario Franceschini la cultura d’alto rango gode di più ampio sostegno. Bisogna tener presente che esistono gli autori italiani, la vera prosa nazionale, quella che un volta veniva riverita.
Maurizio Liverani