di Maurizio Liverani
I partiti, pur di apparire vivaci, si moltiplicano per scissione, altrimenti muoiono di noia. Ormai si è perso il conto. Non sono più pittoreschi; inutili e pretenziosi non hanno un buon odore. C’è inoltre un gran viavai da un polo all’altro con sosta obbligatoria nel gruppo misto. Chi è dotato di sarcasmo attribuisce a questo andirivieni la volontà del cammino della speranza; l’importante è conservare lauti guadagni. Quando è cominciato tutto ciò? Che cosa è rimasto in piedi di ciò che pensavamo del comunismo? Le idee sono scomparse, ma si sostiene nel contempo che sono in riparazione. Ci si fa coraggio con i ricordi, pensando a Palmiro Togliatti che passava per un uomo molto colto, affetto da un allarmante cinismo. Le sue “imprese” venivano apprezzate come l’espressione di un temperamento vivace e troppo, per la base, intelligente. Era un uomo che aveva le idee chiare sul comunismo, ma non amava esibirle perché il Kgb lo avrebbe stecchito. Il suo autore prediletto per un partito nazionale era Giovanni Guareschi. Per se stesso pensava soprattutto a raffinare la sua mente; aveva gusti elitari che i compagni non avrebbero amato. Stimava a tal punto i liberali del “Mondo” da ingiungere a Mario Alicata di inciuciare con Ernesto Rossi, liberale di sinistra, prezioso; un intellettuale di quella razza abituata a spaccare il capello non in quattro, ma in quattrocento parti. Aveva ragione Nilde Iotti quando ricordò che Togliatti era tendenzialmente un liberale. Se lo avesse dichiarato in vita non soltanto avrebbe corso il rischio di un attentato (che poi ebbe), ma sarebbe stato ben lungi dall’avere, soprattutto nella borghesia, le copiose schiere di “imbecilli nazional popolari”. Al suo confronto i ducetti d’oggi sono personaggi ancora impulsivi; nel migliore dei casi, arrivisti vanitosi e snobisti camaleonteschi. Qualcuno, sul versante dotto, si erge a custode dei supremi valori della cultura e dell’intelligenza. Vivo Togliatti costituivano un ceto egemonico. Oggi sono in crisi nonostante la respirazione bocca a bocca della editoria sostenuta dalla televisione; grazie alla quale, declassati profeti tendono a vivere con una personalità immaginaria elaborando un libro alla settimana. Con l’avanzare della letteratura consumistica, che gran parte dei lettori trascura, la vita intellettuale e politica si sgomitola banalmente in senso carrieristico. I “columist” e le cosiddette “guide morali” si abbandonano nella loro inflazione sulla aristocratica esiguità delle morte ideologie. Più spesso si lasciano andare all’attraente languore dei ricordi, alla nostalgia dei bei tempi andati. Lagnosità da cavar sbadigli. Cesare Pavese cercava di mantenere le distanze dal nugolo di librieri del suo tempo. Nel suo “Diario”, alla data del 5 marzo del ’48, considerava i rappresentanti di quella scuola romana definita “l’incontro di giornalisti, di avventurieri, di scrittori e pittori i quali inventano un’arte riflessa di tipo alessandrino, il gusto di rifare uno stile, una tecnica, un modo che fanno data e risaltano l’intelligenza e il non talento…”. Il Sant’uffizio rosso, nonostante il disprezzo di Pavese, riuscì a esercitare sull’intellettualità asservita l’egemonia del consenso. Con i risultati culturali che vediamo oggi.
Maurizio Liverani