FEDERICO, 100 ANNI DOPO

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
 
FEDERICO, 100 ANNI DOPO

Nel cinema avviene quello che accade nella politica; ci sono miti in cui bisogna credere, guai a scardinarli! Federico Fellini è l’equivalente di Don Sturzo; è una entità irreale. Parlare male, o meglio, dire la verità su De Gasperi o su Don Sturzo è un uscire dal binario, dal tracciato obbligatorio. Buoni, cheti, a occhi bassi a una visione privata di più di quarant’anni fa, i convenuti si dileguarono come ladri nella notte, per far capannello lontano e sfogarsi in pettegolezzi. E nei pettegolezzi anche qualche critico ditirambico scantonò. Qualcuno spiegò la predilezione di Fellini per le donne poppute e fiancute come una reazione alla concezione-castratrice dell’amore della religione cattolica; altri vi confidavano che con “Amarcord” il regista tornava al “Marc’ Aurelio”. A quel genere di umorismo al quale Fellini, mancandogli il contributo del suo “garante culturale”, Ennio Flaiano, era tornato. Nel film, sceneggiato da Tonino Guerra, si rifà a Giovanni Mosca, progenitore di quel tipo di vignettismo dal quale Flaiano lo affrancò. Il talento del “milite ignoto” del cinema italiano sprovincializzò il “grande” Federico insegnandogli come “rivelare rivelandosi”. Con il forcipe surrealista e il simbolismo freudiano, Flaiano strappò dall’utero provinciale l’embrione vivo, e lo mise nell’incubatrice da cui uscirono film come “La dolce vita” e “8 e mezzo”. La televisione, nel centenario della nascita del regista, mette in onda uno alla volta i film in cui il duo Flaiano-Fellini fornì il meglio. Di Flaiano, la corrosiva e dolorosa intelligenza, gli ombrosi sgomenti; brividi esistenziali che hanno increspato la frenesia immaginativa di Fellini. Spronato e poi abbandonato da Flaiano, Fellini si è trovato solo. Il naufrago Federico si è avventato sulla scialuppa di vari collaboratori. Soprattutto in tipi come Bernardino Zapponi il quale aveva la particolare dote di combinare l’assurdo con il reale. Federico cercò la flaianità in professionali produttori di macchiette del varietà. I film non flaianei, “Roma”, “Satyricon” come “Amarcord”, sono autentiche sorprese in positivo. Per non cadere nuovamente nello spirito del vecchio “Marc’ Aurelio”, Fellini, per “Amarcord”, ricorse a Tonino Guerra detto anche il Lloyd George dell’”incomunicabilità”, avendo iniettato il bacillo dell’alienazione e della mestizia in Michelangelo Antonioni. Giostrando sui ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, Fellini ha corso il rischio di ripiombare nel caricaturismo. E’ cominciata la parabola da “La dolce vita” in poi. Quando apparve sugli schermi, parte della critica accusò il film di ottenere un “successo di evasione” e di “cattiva letteratura”. “La dolce vita” nasce da un romanzo di Flaiano dal titolo “Moraldo va in città”, storia di un pescarese che lascia la sua terra per andare a Roma. Fellini si comportò come un direttore d’orchestra utilizzando strumenti di prim’ordine. Nino Rota, il famoso musicista che componeva le musiche dei film prima che il regista cominciasse a girarli; lo scenografo Gherardi che con le sue scene e i suoi costumi conferiva quell’atmosfera onirica alle pellicole; Gianni Di Venanzo, un grandissimo operatore morto prematuramente. Ma il personaggio cardine di tutta l’avventura del film è l’uomo più straordinario che sia vissuto nel mondo cinematografico italiano, il primo che intuì le qualità di Fellini, Peppino Amato, suocero di Bad Spencer, che nell’anno in cui nacque “La dolce vita” era un famoso nuotatore. Amato voleva chiamare il film “Via Veneto”, suo regno quotidiano; tentò tutti i sotterfugi per indurre il regista a cambiare il titolo. Non ci riuscì.

MAURIZIO LIVERANI