Le esigenze della grande industria mondiale, soprattutto quella che produce armi, sono assecondate. Ma a che fine? Di qui la perplessità. Senza le guerre il cinema americano perderebbe la metà dei suoi successi commerciali. Vinti o persi, i conflitti “fanno cassetta”. Questo era il principio informatore del grande imprenditore cinematografico hollywoodiano Darryl Zanuck. “Il giorno più lungo” (1962), il film che racconta lo sbarco degli americani in Francia per liberare l’Europa dai nazisti, non sarebbe mai stato fatto se armi, carri armati, vagoni volanti, cioè aerei, avessero dovuto essere dirottati verso gli Stati Uniti. L’Europa è terreno utile per le guerre cinematografiche. Zanuck sosteneva che il mito della superiorità dei film europei è una statua dai piedi d’argilla. Quando si trattava di giudicare le reazioni degli spettatori, non esitava a far suo lo spregiudicato aforisma del famoso produttore Henry Mencken secondo cui “Nessuno è mai fallito per aver sottovalutato il gusto del pubblico americano”. A Zanuck, che era uomo d’affari, premeva ciò che si vende. Quale avventura più straordinaria della guerra? La guerra, per lui, era l’olimpiade del coraggio, della bravura, della preparazione e della potenza. Il nemico, per gli americani, è l’incarnazione del diavolo. Fra tutti i nemici che gli americani combattono in diversi fronti, quello che ha dato la più pertinente incarnazione del diavolo è il nazismo. Un diavolo con le carte in regola. Con il fascismo si trovavano a disagio perché hanno dovuto constatare che quel “povero diavolo” con il Diavolo vero, come lo concepiscono, c’entra poco. La casalinga benignità del mussolinismo non poteva scatenare un ùzzolo di crociata. “Come fate a escogitare tante storie di guerra?”, domandai a Zanuck. “Semplice: non cambiamo mai le storie. Cambiamo gli attori”. Irina Demick, compagna di vita del produttore, apparteneva a volte ai partigiani come ne “Il giorno più lungo”, a volte ai nazisti come nel “Il giorno dopo”. C’è un caso che ha irritato e irrita ancora le autorità militari di mezzo mondo. Alti ufficiali decretano che un film dal titolo “I Vincitori”, del regista e produttore Carl Foreman, lede il buon nome del soldato yankee. Negli annali del cinema americano di guerra non si era mai registrata ancora una pellicola mostrante militari Usa che disertano, che rubano, che danno sfogo ai loro più elementari istinti. Quando apparve (1963) i russi protestarono alla presentazione al festival di San Francisco perché il solo soldato sovietico è ubriaco; i francesi si adontarono perché un ufficiale dell’Armé infierisce con il mitra contro un drappello tedesco che alza la bandiera della resa. Le autorità tedesche volevano opporsi alla presentazione del film in territorio della Germania federale. Antirussa, antiamericana, antifrancese, antitedesca venne giudicata la pellicola per il solo fatto che Foreman non si è servito di personaggi dimostrativi, precisi, buoni o cattivi. Questo scrittore e regista sottile e bene educato si trovò a dover scusare la grossolanità altrui. Non amava i bassorilievi, le statue e sapeva che in ogni eroe sonnecchia la canaglia e che ogni canaglia ha la sua mamma. Il ladro non è mai irrimediabilmente colpevole se fa tanto di portare un fiore alla fidanzata. Fu davvero commovente la lotta che Foreman condusse da allora contro i despoti del cinema che nel mondo occidentale sono gli industriali del film i quali miravano, secondo lui, a fare quattrini anche con offese al buon gusto e al buon senso, mentre rinvenivamo nei film del regime sovietico un’assidua opera di educazione e di propaganda. “Nei film di guerra – mi spiegò – raramente ritroviamo il segno di una reale sofferenza, di una reale responsabilità umana; soltanto il desiderio di vincere la partita, di arrivare primi a ogni costo. Nei film di guerra tutto si svolge in un clima sbalorditivo, dove la morte è soltanto un fatto sensazionale. Così l’interesse dello spettatore è puntato più che sui problemi umani via via nascenti, sui trucchi usati dal protagonista per battere l’avversario e così nella sala cinematografica si installa una tensione del tutto superficiale, che potrebbe adattarsi a qualsiasi contenuto ideologico”. All’aggressivo, accigliato nemico nazista, Hollywood è stata per lungo tempo grata, come con il belzebù sovietico. Sulle guerre fa perno una inesauribile cinematografia.
Maurizio Liverani