In un mondo formicolante di donne ambiziose, ansiose di mostrarsi e di darsi all’arrembaggio, il carattere placido di Kim Novak ha acquistato un rilievo straordinario. Nel teatro di posa, dove Kim ricordava il nome di battesimo del più umile carpentiere e della più insignificante attrice di riserva, la diva ha goduto sempre di una specie di affezione riservata a ben poche attrici della stessa grandezza. Il tratto fondamentale del carattere di Kim è offerto da quel grado di passività che i poeti, in tempi di mentalità più classica, pensavano fosse l’essenza della natura femminile. Kim agli inizi della sua carriera causava e ispirava azioni, ma non agiva mai che in risposta al desiderio degli altri. E’ stata una femminista ante litteram nel cinema. Per lei l’uomo, anche il più sincero amante della libertà, diventava tiranno; rifiutava di prendere sul serio la sua anima, anzi, di riconoscere che ne abbia una. La sua vera passione era la pittura. Mordaci lingue hollywoodiane si riferivano ai suoi quadri come a scarabocchi. Erano le stesse malelingue che agli esordi di Kim dicevano: “Cammina come un’anatra ed è grassa come una quaglia”. Mi confidò che a Billy Wilder i suoi quadri piacevano. E’ sempre stata terrorizzata dal fatto di essere considerata una stupida, di essere ignorante; le solite mordaci lingue asserivano che quando arrivò a Hollywood non sapeva cosa fosse il baciamano e quando un uomo portava le sue labbra sulla sua mano era tentata di ricambiare il gesto. Quando aveva trentuno anni e interpretava “Le amorose avventure di Moll Flanders” dettò la sua epigrafe: “Qui giace Kim Novak, attrice americana. Visse felice perché non si sposò mai”. E’ tutto vero meno l’”americana” perché, in realtà, era cecoslovacca. I genitori erano originari della Boemia. Di uomini ne aveva detenuti e congedati diversi. Non si è zitelle senza una vasta, profonda conoscenza dell’animo maschile. Kim ce l’ha avuta eccome. Fior di tangheri come il figlio del generale Trujillo e Frank Sinatra. Amori fatti di nulla, amori bolle di sapone che un po’ di aria basta a farli e un fiato a disfarli. Kim parlava di questi uomini come di piccoli scervellati incapaci di un sentimento stabile e di un’idea fondata. Alla domanda perché non si sposa? Rispondeva invariabilmente: “Perché nessuno ha le qualità che io cerco”. Poi, in realtà, si sposò due volte. Gli esperti di Hollywood, nel contemplarla con professionale distacco, l’hanno descritta, dopo i matrimoni, come l’umana personificazione di un ondulante “richiamo dell’amore”. Il tremendo rispetto per il talento e il cervello l’ha indotta a guazzare in un mare di libri; ha imparato che la gente colta non considera letteratura “Cioccolata a colazione”. Questo coltivarsi assiduo le ha consentito, agli inizi, di trovarsi un nome d’arte. Come questo nome sia nato è presto detto: ha scelto Kim in omaggio a Kipling, rinunciando al suo vero nome: Marilyn (e di questo si capisce il perché) mentre ha mantenuto quello di Novak che appartiene alla famiglia. Quando venne trasformata in una irresistibile bionda, un onnipotente produttore avrebbe voluto cambiare il suo nome in quello di Kim Marlowe. Se prima gli uomini respinti sussurravano che era stupida come un bastone da passeggio, quando era diventata un pozzo di cultura temevano la sua conversazione. L’essere caduta nel raggio di osservazione sentimentale di un attore shakesperiano è equivalso a un crisma di alta intellettualità. L’attore si chiamava Richard Johnson (sposati nel ’65 e divorziati nel ’66).
MAURIZIO LIVERANI