di Maurizio Liverani
“L’età”, scrive Ennio Flaiano nel “Diario notturno”, “mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità; noi ne abbiamo infinite versioni”. La satira nel senso nobile della parola in Italia è “soltanto” Flaiano; prodotto dell’intelligenza non della passione. Le insolenze esasperate non sono amiche dell’ironia. Quando Luchino Visconti accusò il critico teatrale Raul Radice di “scarsa lealtà” per essersi addormentato durante la rappresentazione di “Uno sguardo dal ponte”, Flaiano ribattè di essere stato talmente scosso dall’accusa “al punto di non aver chiuso occhio durante tutta ‘La monaca di Monza’”. Il sonno, per Visconti, era una “deriva di destra”, una forma di fascismo. Sprovvisto apparentemente di ogni logica, il “sonno critico” (vessillifero Ercole Patti) è stato sempre una forma di “nuova resistenza” al dilagante conformismo dello spettacolo all’italiana. Flaiano nello “Spettatore addormentato” spiega: “In questi istanti (di sonno, ndr) abbiamo lo spettatore perfetto, unico, ideale”. Perché lo spettatore che si addormenta a una prima è nel giusto? Lo spiegò in un esemplare articolo in cui rimarca come la sensibilità di chi è seduto in platea, con la pennichella critica, avverte più a fondo il valore di certi passaggi dell’opera cui assiste “dormiente”. Dall’articolo scaturì quasi una teoria. Al conscio viene in soccorso il subconscio e a volte la comprensione dell’opera è più completa. La tesi di Flaiano ebbe successo in certi ambienti. Chi si accingeva ad andare a teatro affermava, non scherzosamente, “vado ad apprendere con l’aiuto del sonno”. All’uscita, per conoscere il giudizio, lo spettatore si sentiva porre questa domanda: “Hai dormito bene?”. Ricordo il caso Petri; al regista, Flaiano rimproverò di aver dato, nell’”Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, a una guardia il nome di Mario Pannunzio, direttore del “Mondo”. “Pensando a Pannunzio avevi voluto sbeffeggiare tutta una classe di persone colpevole di non credere nel “compromesso storico”. Il necrologio dell’”Unità” alla morte di Flaiano grondava ignominia. L’articolista, intingendo la penna nella pece, non poté scrivere “servo dei padroni” soltanto perché Flaiano in una fulminante replica a chi gli chiedeva: “Perché non sei comunista?”, rispose spazientito: “Non ho mezzi…”. Aveva il terrore di confondersi con la politica. Da Leo Longanesi, allorché lo incontrò la prima volta, ebbe questo amichevole avvertimento: “Sii povero, costa meno”.
Maurizio Liverani