I LAMENTI DEL BEL MARCELLO

di Maurizio Liverani

Il cinema attrae sempre meno bei giovani anche perché non ci sono grandi produttori e quelli che si sono affermati in anni non lontani sono emigrati negli Usa come vassalli delle maggiori case di produzioni mondiali. Vige ancora la norma secondo cui “nessuno è mai fallito per aver sottovalutato il gusto del pubblico americano”. Aver beatificato Marcello Mastroianni dopo anni dalla morte equivale a mancargli di rispetto. Considerare l’attore rimpianto alla stregua di un valore consacrato ha il sapore di una presa in giro. Ancorato a una concezione negativa della vita, aspramente critico verso una società alienante, Mastroianni era un penetrante sintomologo del male di vivere; divagava, scherzosamente, alla maniera di Federico Fellini sull’orlo del “nulla”. A proposito della politica diceva che tutti i partiti, in Italia, hanno una loro concezione della libertà che consiste nel sopprimere quella degli altri. E’ nato come attore nel continuo “baccaja” del cinema romanesco, film tutti vociati, tutti gridati come in “Peccato che sia una canaglia” (1955) di Alessandro Blasetti, con Sofia Loren e Vittorio De Sica, dove si innamora, lui tassinaro, di una ladruncola figlia di un ladro ricondotto sulla retta via dall’amore. Era allora nel novero dei “poveri ma belli”; considerava recitare per lo schermo un gioco abbastanza piacevole, ma quasi sempre come una “scocciatura”. Nello stesso anno dominato, al cinema, dal neorealismo era, in teatro, il sindaco Astrov nello “Zio Vania” di Cechov, dove tutti i personaggi piangono e gridano; qui il ventottenne Marcello assimila meglio quello “spleen” decisivo per la costruzione del suo personaggio nella vita come sulla scena e sullo schermo. La voce di Mastroianni perde ogni eco romanesca e trova un accento profondo e vellutato. Luchino Visconti infonde a Marcello una nuova consapevolezza d’attore e di uomo; sulla scena si auto-dissolve il ragazzone cinematografico. Quel pulviscolo di noia sospeso a mezz’aria, che ha accompagnato per tutta la vita Marcello, è stato ispirato e intravvisto nel “nostro” Anton Cechov per eccellenza: Ennio Flaiano. E come Flaiano, non ha mai manifestato l’intenzione di entrare nei coni d’ombra dei canonizzati. Se pensiamo a Mastroianni, a come lo abbiamo conosciuto c’è da provare vergogna a leggere quanto scrivono i superbiosi intellettuali che lo hanno appena sfiorato. I pedanti e gli ipocriti nel cinema italiano sono sempre stati all’avanguardia. Perché non ricordare che Marcello Mastroianni cercò disperatamene conforto nell’”esilio” parigino; amava Roma ma non poteva più tollerare il marciume morale di questa città. Le interviste che rilasciava all’estero avevano una durezza da lasciar stupiti. Aveva annotato un epigramma, fatto suo, di Flaiano che dice: “Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quelli che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? E’ improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire in questo Paese… Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità; noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio ai sociologhi, agli storici, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarmi le cause; io ne subisco gli effetti e con me pochi altri… perché quasi tutti hanno una loro risorsa personale, soprattutto che non contrasti con i loro interessi”. Oscar Luigi Scalfaro, dopo aver contrastato “La dolce vita” invocando le forbici della censura, da presidente della Repubblica ha fatto di Fellini e di Mastroianni due glorie nazionali. L’astiosa avversione dell’intellettualità italiana fu riassunta da Flaiano in questa frase: “L’arco costituzionale non ci ama”. Come l’arte provoca sempre la curiosità senza mai pagarla, Mastroianni apparteneva a quel tipo d’uomo che non dà mai la felicità, ma non si stanca di prometterla. Un grande settimanale americano lo definì “l’eroe indifferente”. Quando andò a Hollywood per trattare i diritti di “Dopo la caduta” di Arthur Miller, assistette alla rappresentazione senza entusiasmo. Ne trattò l’acquisto, poi, lentamente, si convinse che non valeva la pena di interpretarla in Italia. La sua più bella incarnazione la offrì nel film di Roberto Faenza “Sostiene Pereira” (dal romanzo di Antonio Trabucchi). Dovunque andasse non trascurava occasione per ricordare che a settant’anni si sentiva bene come un santo nella nicchia; rilasciava interviste feroci per poi simularne l’inutilità.

Maurizio Liverani