I LETTERATI? MEGLIO ALL’INCANTO
Palmiro Togliatti (foto) passava per un uomo molto colto ma affetto da un allarmante cinismo. Le sue “imprese” venivano apprezzate come espressione di un temperamento vivace e “troppo” intelligente. Era un uomo che aveva le idee chiare sul comunismo, ma non amava esibirle perché il Kgb lo avrebbe stecchito. Al regista Giuseppe De Santis che gli chiedeva spazientito: “Non ti sembra che nel nostro partito ci siano troppi imbecilli?”, rispose lentamente, cercando di farsi intendere: “Per questo siamo un grande partito nazionale popolare”. Era troppo acuto per il regista “ciociaro” di “Riso amaro”, film di sapore dannunziano contrabbandato da neorealista. Quando Tommaso Chiaretti, sull’”Unità”, stroncò “Don Camillo e l’on. Peppone” con un articolo dal titolo “Italia offesa”, Togliatti prese carta e penna e “corresse” quella stroncatura. Guareschi era il suo autore prediletto per un partito nazionl-popolare come voleva fosse il Pci. Delle sue letture raffinatissime parlava con pudore nel timore del giudizio della base che non amava i gusti elitari. Stimava a tal punto i liberali del “Mondo” da ingiungere a Mario Alicata di “inciuciare” con Ernesto Rossi, liberale di sinistra prezioso, di quella razza abituata a spaccare il capello non in quattro ma in quattrocento parti. Al confronto di Togliatti i ducetti d’oggi della sinistra sono tutti ragazzotti impulsivi; sono pigmei, nel migliore dei casi arrivisti vanitosi e snobistici camaleonteschi. Come politicanti “borghesi” concepiscono la politica come intrigo e fonte di vantaggi personali. Qualcuno, sul versante dotto, si erge a custode dei supremi valori della cultura e dell’intelligenza. Le conventicole politico-letterarie che, vivo Togliatti, costituivano un ceto egemonico, sono in crisi, nonostante la respirazione bocca a bocca dell’editoria, grazie alla quale, declassati profeti tendono a vivere con una personalità immaginaria. Con l’avanzare della letteratura consumistica che sgomitola banalità in ogni campo dello scibile si assiste a una generale conversione in senso carrieristico. L’editoria percorre a passi di bersagliere la riutilizzazione a destra di vecchi e nuovi intellettuali di sinistra. Con gran scorno dell’intellettuale di destra che mal sopporta questa invasione di campo. I columnist e le cosiddette “guide morali” si abbandonano, nella loro inflazionata produzione, sull’aristocratica esiguità della vita. Più spesso, l’attraente languore di lasciarsi andare ai ricordi, alla nostalgia del bel tempo andato. Lagnosità da cavar sbadigli. Il superamento degli interessi politici coincide, secondo i dettami della senile vanità, con la cosiddetta maturità poetica; la sola che permetta il superamento delle passioni politiche. Il biografismo, il macerarsi interno, l’esame comparato tra presente e passato trionfano con toni e stili di attempati notai di campagna. Con Pavese e Vittorini il lettore ha conosciuto e amato la letteratura americana. Pavese non voleva fraternizzare con la conventicola dei letterati romani; anzi, cercava di mantenere le distanze. Nel suo “Diario”, alla data del 5 marzo del ’48, si possono leggere giudizi tutt’altro che lusinghieri sul gruppo di scrittori tra i quali Moravia, considerati come tipici rappresentanti di quella scuola definita “l’incontro di giornalisti, di avventurieri i quali inventano un’arte riflessa, il gusto di rifare uno stile, una tecnica, un modo che fanno data e risaltano l’intelligenza e non il talento”. Queste annotazioni sul “Diario” sovraccaricò l’odio di Moravia che si mise all’opera per dimostrare come Pavese fosse considerato, a torto, un autore comunista. In quegli anni nacque la razza funestissima degli organizzatori culturali.