di Maurizio Liverani
Paragonare, dopo “Le fatiche di Ercole”, Pietro Francisci al grande Cecil De Mille faceva ridere. Dopo “Attila” che rivelò Sofia Loren, lo battezzarono Cecil De Uno. Ma con “Orlando e i paladini di Francia”, che segnò l’epifania cinematografica della rimpianta Rosanna Schiaffino, siamo già a Cecil De Cento. Con le sensazionali “Fatiche di Ercole” – che fruttarono miliardi in tutto il mondo – Cecil De Centomile, per alcuni addirittura Cecil De Un-milion. “Bufale – mi disse anni fa Francisci – ai produttori non ne ho mai date”. Ha fatto, cioè, guadagnare loro miliardi che poi dissipavano affidandone le sorti a registi pregni di “messaggi” come le api di miele, ma che il pubblico restituiva al mittente. “Bufala” esordì nel gergo cinematografico di quegli anni come un attributo dato a tutto ciò che cercava di ingannare in maniera grossolana l’altrui buonafede. A Francisci gli incassi favolosi venivano addebitati come atti turpi. Il De Mille di Hollywood otteneva identici risultati ed era circondato da un’attonita ammirazione. Registi oberati di “istanze” hanno sempre covato un malcelato fastidio verso Francisci, un distinto signore sul cui volto di placido romano, un po’ melanconico, la furberia non si vedeva, ma ce n’era molta. Ebbe la furberia di stringere la vita e il busto di una ragazzetta in modo che il seno quasi si gonfiasse sulla scollatura, galleggiando morbido e dolce. Fu così che “creò” Gina Lollobrigida in due filmetti musicali che si intitolavano “Stornellate romane” e “’Na sera ‘e maggio” (una iniziazione attribuita a De Sica). Da autentico e grande luminare del sesso, Pietro Francisci ha sempre avuto per le belle donne una dissennata infatuazione, un totalitario entusiasmo, un fanatismo allergico a ogni misura critica. In “Antonio da Padova” (1949) trovò il modo di mettere accanto alla mistica figura del santo una donna sino allora sconosciuta. Trattandosi di Silvana Pampanini, il regista propose un caso di delicate incognite, senza rinunciare agli scabrosi sottintesi. Le genuflessioni di Silvana si facevano sempre più pressanti e quella punta di inconscia civetteria fu all’origine del suo successo. Tutta la boria di “Attila” (1954) cadeva d’innanzi a Sofia Loren. Sofia era, in quel tempo, un interrogativo; non si riusciva a trovarne una collocazione sullo schermo. Era troppo bella, si diceva, troppo grande; vicino a lei gli uomini sembravano dei pigmei. Francisci rivelò quale effetto avrebbero fatto sullo schermo la bocca giovanile, le labbra schiuse in un subdolo sorriso, i seni pieni di Sofia accanto a quella iradiddio Anthony Quinn. I film pseudo storici o mitologici hanno concorso a salvare più volte il cinema italiano dalle sue frequenti, difficili congiunture. Per far diventare presentabili al pubblico “bufale” irrecuperabili si ricorreva ai “senapismi” del dottor Francisci. Una volta Roberto Rossellini gli chiese di cucirgli e dare un senso logico a un documentario sulla pesca del tonno. “Le immagini erano molto belle”, mi raccontò Francisci nella sua casa in via delle Milizie a Roma, “ma sai com’è fatto Roberto. Ogni tanto si entusiasma e fa cose formidabili, poi si stanca e lascia correre. Io ho preso il film, gli ho fatto qualche taglietto, gli ho dato un’aggiustatina. Insomma, ho fatto un bel lavoretto”. Tutti osannammo al “genio” di Roberto Rossellini. Pietro Francisci era conosciuto (lo abbiamo già ricordato) come il regista che ha i “piroli”. Nel gergo cinematografico romanesco, uno che “ci ha li piroli” voleva dire che se ne intendeva. Un giorno questo regista, che sembrava coniato da madre natura per rappresentare il rovescio del solare e muscoloso Ercole, armato del suo fiuto e della sua fede nel cinema spettacolare, in un giornale per culturisti scoprì l’aitante, muscolosa figura di un insegnante di educazione fisica americano: Steve Reeves. All’arrivo in Italia di questo “ginnasta” tutti i fusti cinematografici indigeni furono ridimensionati. Steve era l’Ercole che in culla aveva strangolato un serpente, era Giasone che combatteva per il vello d’oro. Come aiuto regista di Francisci, per “Le fatiche di Ercole”, debuttò Sergio Leone. L’inventore del “western all’italiana” da allora fu il più richiesto “aiuto regista” di tutto il cinema. Per cinquanta volte fu la “spalla” determinante di famosi registi. Finché Francisci, a bassa voce, gli disse in romanesco: “A Se’ quann’è che te decidi a fa’ er regista?”. Leone, spronato da quell’invito, impostò i suoi memorabili western.
Maurizio Liverani
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NELLA FOTO: In una rarissima immagine del 1954 Piero Francisci con Antony Quinn sul set del film “Attila”