diMaurizio Liverani
Quando è immerso in un complicato ingranaggio anche l’essere più insignificante può trovare, qualora fosse scacciato, una sistemazione. Il fatto di aver collaborato in una rete televisiva di alto ascolto, ma di esserne stato con buone (o cattive?) maniere allontanato, consente alla vittima di trasferire il suo odore di fallito in un’altra rete di minor prestigio, ma alla quale può darne irridendo, scimmiottando i dirigenti che dalla rete cosiddetta portante lo hanno cacciato. I nuovi datori di lavoro lo convinceranno facilmente che la vita, da loro, sarà più autentica. Per esempio, Massimo Giletti ha lasciato -meglio, è stato indotto a lasciare- il frac della Rai per indossare lo stiffelius di una emittente non osannata, ma nella quale sarà più facilmente libero di lanciare anatemi alla cosca che lo ha “elegantemente” giubilato. Il suo caso somiglia a quello di un calciatore declassato dalla squadra che lo ha acquistato a caro prezzo; nella nuova non sarà obbligato a rispettare l’autorevolezza concessagli dai procuratori illustri. I deliberati della rivalsa all’inizio sono sempre ammessi, poi, grado a grado, verranno sottoposti a un attento e accurato spegnitoio. Quell’estratto algebrico in cui si riassume una celebrità televisiva potrà, nei primi tempi, essere deriso con allusioni non rispettabili. Al reietto della “corazzata” intanto sarà concesso il piacere di spargere veleni anche per ingigantire oltre alla sua importanza anche quella della nuova rete. C’è sempre nelle televisioni un tempo per esaltare e un tempo per deprimere; è una norma che vale sia a destra che a sinistra. Al punto che le emittenti delle due fazioni si scambiano, a volte per ragioni incomprensibili, i giullari dell’informazione. E’ un maligno piacere che dalla carta stampata è passato al video. Seguendo questo andazzo nel farsi guerra, le televisioni sono diventate un caleidoscopio in cui lo spettatore capisce sempre meno.
Maurizio Liverani