FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
IL BEL CINEMA PUO’ ATTENDERE
“E’ bello, è giovane, magari anche intelligente. Non vorrà anche il successo cinematografico? Non lo sopporterei…”. La scherzosa acredine dei registi anziani verso i registi più giovani fu bene espressa, tanti anni fa, da questa frase sfuggita a Federico Fellini quando un film di Bernardo Bertolucci (che tutti oggi rimpiangiamo) fu osannato nel ’69 al festival di Venezia. Alberto Moravia, che pure aveva affidato la versione filmica de “Il conformista” al regista de “L’ultimo tango a Parigi”, diceva: “Bernardo? Che volete che faccia? E’ cresciuto in una serra”, intendendo che non avrebbe potuto dare molto (ed ebbe torto). I pesci grossi della frateria cinematografica erano in allarme; intorno al ’70, in Francia era esplosa la “nouvelle vague” che aveva messo in soffitta i grandi miti del cinema francese. Con i loro strali, critici come Truffaut, Godard, Malle gettarono nella polvere nomi illustri come René Clement, Jacques Becker, Marcel Carnè, René Clair. Sulla scia di questa “nouvelle vague” anche in Italia le cosiddette nuove leve preso a insultare, meno spavaldamente, i grandi del nostro cinema. Iconoclasti per imitazione, cioè più per battere gran cassa che per altro, arrancarono in un aurea di mediocrità. Rampolli inquieti nascono continuamente. Sono, tuttavia, rispettosi verso i “matusa”, si tolgono lo sfizio di fare film di cassetta; se vogliono fare “arte” rivelano un’assoluta pochezza. Sono innocui quando non sono addirittura dannosi. I critici storcono il grifo davanti alle loro opere, spesso sonnecchiano, ma non incrudeliscono. Il cinema di questi esordienti è la spia della sconclusionatezza nazionale e interessano poco. Possiamo passare la vita a rimuginare sui nostri difetti? Si ingigantisce sempre più la nostalgia per quell’età dell’oro quando il cinema italiano si avvicinò al Vero, anzi alla Verità. Quelle “prodezze” sono un ricordo. A queste conclusioni era approdato anche il povero Fellini, prima di morire: “Non c’è più niente che riesca realmente a coinvolgerci”.
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La saggezza popolare, messa alla porta, rientra dalla finestra.
Il capitalismo sopravvive dopo ogni sommovimento; quando tutto è finito, tutti si ritrovano ai loro posti, prosternati dinnanzi al solito ordine rappresentativo.
Purtroppo, l’egemonia culturale è oggetto di ossequio nei centri di potere.
Viviamo in una “malafedocrazia”, cioè nell’inganno.
Il tempo ha neutralizzato la figura del capo indiscusso.
Quando non è vaniloquio demagogico, la stampa di parte è insulto.
I giornali additano all’esecrazione soltanto alcuni personaggi con una vergognosa propensione a stendere un velo su ben più gravi accadimenti.
La professione di “antiberlusconista” ha finito per intorpidire il cervello della sinistra.
Per essere politico bisogna innalzare la cresta, gonfiare i bargigli promettendo sempre di far luogo a un nuovo avvenire.
MAURIZIO LIVERANI
(Aforismi dai libri “SORDI RACCONTA ALBERTO”, “IL REGISTA RISCHIA IL POSTO”, “AFORISMI SOSPETTI” e “LASSU’ SULLE MONTAGNE CON IL PRINCIPE DI GALLES” di Maurizio Liverani)