IL CARMELO DI FLAIANO

di Maurizio Liverani

Una buona notizia: alla Festa del cinema di Roma, e poi su Sky Arte, è stato proiettato “Tracce di bene”, un ritratto “obliquo” di Carmelo Bene , di Giuseppe Sansonna, con Luigi Mezzanotte, Flavio Bucci e Franco Citti. Finalmente si è reso quanto è dovuto a un attore e regista, da noi intervistato più volte. Un vuoto “doloroso”: non si dà il dovuto risalto a chi per primo riconobbe l’originalità del grande artista pugliese, Ennio Flaiano. Il “colloquio” teatrale di Bene con il pubblico rigurgitò sin dalla prima apparizione di tossine: quelle che irritano il perbenismo degli spettatori non preparati alle sue sorprese. Questo “demonismo” prende vita dal terrore della dissoluzione, con la morte del corpo. Se Ennio Flaiano, una sera di tanti tanti anni fa, l’avesse tramortito con una “paginetta” convenzionale, i “ciompi teatrali” di Carmelo sarebbero stati, forse, subito domati. Dall’autore pescarese, premio Strega con “Tempo d’uccidere”, ideatore e ispiratore de “La dolce vita” di Fellini, Bene apprese una verità che lo sconcertò. Secondo Flaiano nel teatro italiano la regia era adatta per facilitare la riuscita sociale, portare al potere personale, alla notorietà e al successo. Mostrò all’attore uno scritto teatrale di Voltaire in cui si annota come una compagnia di comici italiani, che agiva in quel tempo a Parigi, si era ridotta a una tale mancanza di idee, a furia di ripetersi nei loro lazzi, da mischiare negli spettacoli i fuochi d’artificio, non sapendo più che fare. Flaiano dimostrò a Carmelo che il nostro teatro non aveva idee. Perché dovremmo averle? Per chi? Per cambiare questo pubblico? O non è forse il pubblico che sta cambiando noi? Il nostro pubblico è onnivoro, mangia tutto, e non si illudano i registi che lamentano di non essere acclamati. Lo saranno. Ma si chiederà a loro, come a tutti, di esagerare, degradare, baroccheggiare, narcizizzare. Esattamente quello che si chiede ai sarti, ai calzolai, ai corazzieri, agli arredatori, agli artisti, ai pensatori, ai poeti, ai rivoluzionari: sempre più eleganza. L’incontro con Flaiano fu per Bene decisivo; molto più importante di quello con Pasolini. “L’intellettualità italiana teatrale e letteraria non ha più nulla da dire e aspetta. Che cosa? Che tutto si chiarisca? E’ improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire in questo Paese che amo. Molti Paese molto più piccoli e importanti del nostro hanno la loro unica verità; noi ne abbiamo infinite versioni”. Quando Flaiano convinse Carmelo che, senza la sua corrosiva e dolorosa intelligenza, i suoi ombrosi sgomenti, il suo scenario sarebbe stato coinvolto nella crisi. Da quel momento l’attore si decise di farla finita con “tutto il bagaglio di classicità ambulante”, così la definiva; mi confidò, che “le perdite, il fallimento rendono più del risparmio, della pidocchieria. Deve mancare l’idea di progressione. La sospensione mantiene nascente ogni pensiero”. Altri hanno cercato di imitare la scintillante empietà di Carmelo, ma non erano o non sono autentici. “L’oppressione si laurea in cinismo nella cosiddetta avanguardia, conta invece solo quello che sta nel presente… come si fa a ripetere che i miei spettacoli nascono dal caos, si confrontano con esso… questa è la diligenza del servo. Il teatro è il bazar dei servi”. Bene è stato il contrario del fine dicitore; non possedeva nel colloquio l’arte di porgere. Affibbiava la botta senza attendere la risposta e se qualcuno si azzardava a tentarla, rincarava. Altre leccornie di Bene sono queste: “la tenebra esalta l’eros perché in essa si apposta il funereo”; il mio Emil Cioran mi dice questo: “non è possibile mettersi in luce né recitare una parte quaggiù senza l’aiuto di qualche infermità”. Carmelo Bene parlava dei suoi mali come si parla di una persona di servizio tenuta a entrare nella camera del padrone solo a comando. E’ stato un nichilista con un pessimismo affermativo, quello della creatività e della forza. Aveva fatto sua la massima di Pascal: “Dire la verità per coloro che la dicono è svantaggioso perché si fanno odiare”.

Maurizio Liverani