IL MALE? E’ UN CAMPO DI BATTAGLIA
La nascita del male, il suo insinuarsi nell’animo
umano ed il conseguente controllo della volontà, determina il più feroce e
inammissibile conflitto che la coscienza debba sopportare. È questo l’avvio del
Macbeth, è questo il campo di battaglia. Quello che avviene una volta che le
forze si schierano sul campo tuttavia, stupisce. Quasi che lo stesso
Shakespeare ci stesse incitando non a patteggiare per l’uno o l’altro
schieramento, ma a gioire del massacro in sé, dello smembramento dei corpi, a
trovare piacere nello sgorgare a fiotti del sangue. Non una sconfessione del
peccato, ma un godimento di esso. Il luogo in cui si svolge questa battaglia è
uno spazio vuoto, una brughiera troppo lontana da Dio perché i suoi echi possano
raggiungerci. Il riparo da questo sguardo divino ci offre un’orribile
scoperta: il punto cieco di Dio coincide con la nascita di un altro tipo di
sguardo, quello osceno del voyeur.
Dopotutto, il punto di vista scespiriano attinge da quello della tragedia
greca, dove la messa in scena di passioni che sconfinano nel male e nella
violenza servono a produrre quella che veniva chiamata “catarsi”
ovvero “purificazione” e che Aristotele indica come la liberazione
dalle passioni tramite la visione della tragedia. Che sia proprio il voyeurismo
delle passioni che il teatro ci mostra senza filtri morali a liberarcene?
Shakespeare ne era conscio: in nessuna delle sue opere c’è mai giudizio (come
nella tragedia greca) bensì rappresentazione della passione e di tutti i
conflitti che ne derivano. In Macbeth, però, questa rappresentazione è più
feroce che altrove e il gioco forse si ribalta del tutto: e se la liberazione
non esistesse realmente? Se la liberazione fosse abbracciare la corruzione
della
mente e dell’animo, anziché allontanarsene, in uno slancio vitale che travolge
tutto? Come se vivere le proprie passioni volesse dire aprire un gorgo
infernale che risucchia ogni cosa e sul cui fondo si scopre che “La vita
non è un’ombra che passa, la recita di un oscuro attore che si pavoneggia e si
affanna sulla scena”; verità banale di per sé (chi non sa che si deve
morire e che la vita è vana?) se non fosse che abbiamo visto Macbeth – e non
solo lui – dannarsi l’anima per conseguire un fine che pareva essere più edificante.
Come se, realmente, la vita potesse essere altro e non solo quest’ombra che
passa.
Non a caso gli attori sulla scena verranno chiamati a un forte dispendio
fisico, a un affanno del corpo teso a sottolineare che, pur sapendo che la vita
si risolve in un passaggio fugace, l’uomo si opera per segnare il suo tempo,
per incidere il suo nome da qualche parte: da qui l’ambizione, il desiderio di
immortalità che il potere sembra concedere, la sete di avere di più di quel che
si ha nell’illusione che questo migliori l’esito della recita oscura.
Tutto questo affanno e desiderio si incarna nelle streghe, che raccontano la
parte profonda di questo moto interiore e che, nello spettacolo, si
moltiplicano in più Macbeth e Lady Macbeth per ricordare che nessuno è esente
da questa pulsione e che tutti possiamo diventare o l’uno o l’altra. La
moltiplicazione coinvolge quindi anche il pubblico: così come tutti gli attori
possono tramutarsi in questi alfieri del male, così lo spettatore è costretto,
dalle streghe, a chiedersi: “E Io? Non abito forse anche io la
battaglia?”
TEATRO VASCELLO
dal 27 al 31 marzo
La Fabbrica dell’Attore – Teatro
Vascello Roma
ABITARE LA BATTAGLIA
(CONSEGUENZE DEL MACBETH)
regia Pierpaolo Sepe
con Federico Antonello, Marco Celli, Paolo Faroni, Noemi Francesca, Biagio
Musella Vincenzo Paolicelli, Alessandro Ienzi
drammaturga Elettra Capuano
movimenti di scena Valia La Rocca, costumi Clelia Catalano
luci Marco Ghidelli, elementi di scena Cristina Gasparrini
assistente scene Clelia Catalano
guarda il trailer https://youtu.be/gkCG2jjw5Dw