IL MIRACOLO SOGNATO

di Maurizio Liverani

Con quella sua aria da velocipedista preistorico, Cesare Zavattini era continuamente indaffarato ad apparire moderno. Per concorrere al Premio della signora Bellonci, nel 1970, varò un volume che si intitola “Non libro più disco” nel quale, gonfio di contestazione e di rivoluzionarismo, si presentò nella veste di uno scrittore preso da un raptus vedendo, in un’osteria, dei poliziotti fraternizzare con dei giovani fascisti. L’immagine lo indignò a tal punto da essere pronto a fare la rivoluzione, quella letteraria, scombicchierando le parole, imbrattando i fogli di inchiostro e sproloquiando. “Un libro più disco” è farcito di pagine accuratamente sporcate come se lo scrittore, invasato dalla sua furia creatrice e distruttrice, volesse paragonarsi a un fiume d’inchiostro, a volte appena appena contenibile negli argini delle pagine; altre in piena e straripante fiumana. Voleva illudere i giurati del Premio Strega di essersi messo sotto i piedi tutti i divieti ed essere ormai votato alla vera violenza. Si cimentava con l’acrobazia e il paracadutismo dell’asintattismo, delle parole libere, dell’onomatopea pur di apparire provocante e provocatorio. Prima di lui, altri autori si erano comportati con la pagine come teddy-boy, facinorosi, contestatari. Zavattini puntava il dito contro tutto e contro tutti, facendo intendere che con “Non libro più disco” volesse saldare il conto, sentendosi degno di allori, di onori e di premi letterari, con lo Strega. Premio che ha raramente incoraggiato il liberalismo e i rivoltosi della letteratura. I torturatori della lingua italiana sono legioni, ma non vincono i premi letterari. Premi che oggi sono ridotti a una tale mancanza di idee da appellarsi ai partiti egemoni (ce ne sono?). Nel 1996, un giovane editorialista in un’inserzione scrisse: “AAAAA. Giovane editorialista de ‘l’Unità’, di bell’aspetto, offresi alla letteratura italiana”. Il suo nome era Sandro Veronesi. Era entrato nella cinquina del Premio Strega in palio il 4 luglio di quell’anno. Precettò cento membri della giuria che dessero il loro voto al suo libro. Affermò di essere spinto a questa autopromozione dalla nobile volontà di contribuire a dare dignità letteraria a una narrativa “…bastarda, contaminata, accaldata e di frontiera”. Effettivamente da quegli anni la letteratura italiana tiene appena “il minimo”. L’inserzione di Veronesi era un modo astuto di sollecitare la curiosità delle donne (c’era la curiosità per un giovane di bell’aspetto) che quella dei lettori. Prima di lui, i giovani scrittori si autosponsorizzavano con “hurrà!” di entusiasmo per i critici di sinistra. Ricordiamo questo episodio a dimostrazione di come i premi letterari siano assegnati attraverso “inghippi”. L’Italia è mediocre lettrice di libri. Non è il pubblico che corre al libro, è il libro che cerca di cacciarsi tra il pubblico a gomitate. Nel “Primo cerchio di Ivan Denissovic”, Solgenitsyn scrive: “Nessun regime ha mai amato i grandi scrittori, solo i mediocri”. Convinzione di Zavattini è che è importante scrivere per tenere lontana la morte. Colui che non distende mai la mente dalla fine, come scrive Emil Cioran, “dà prova di egoismo e di vanità… Non c’è niente di più inelegante nel temerla; è un timore che intacca i puri, li sfiora senza raggiungerli”. Zavattini, in una conversazione tra amici, a un certo punto, parlando di Tolstoj disse, press’a poco: “lo amerei di più se non scrivesse com’è ripugnante la fine della vita”. A chi gli rimproverava di far volare in cielo, nel film “Miracolo a Milano”, a cavallo sulle scope i lavoratori, rispondeva che non si può vivere in un mondo che amareggia tutto quello che hai goduto annullandolo con la fine dell’esistenza.

Maurizio Liverani