FATEMELODIRE
di MAURIZIO LIVERANI
IL MOSTRO ATTUALE DI FELLINI
Tra i film più celebrati alcuni finiscono nel dimenticatoio, altri invecchiano bene e, infine, alcuni tornano attuali. L’astio verso Federico Fellini è caduto, ad esempio, a Rimini soltanto quando la leggenda del regista, enfatizzata dalla morte (con solenni funerali di Stato), ha dato slancio al mercato turistico-culturale. La municipalità della città romagnola non ha mai perdonato a Ennio Flaiano – garante “culturale” delle migliori opere di Fellini – il suo anticomunismo e di aver collaborato a ingigantire la statura del loro poco amato concittadino. Se Leo Longanesi intuì subito il talento di Flaiano inducendolo a scrivere “Tempo di uccidere” (premio Strega nel ’47), Flaiano capì meglio di qualsiasi altro le capacità di Fellini senza per questo rinunciare a rivedergli le bucce. Nel febbraio del 1969, lo scrittore pescarese scrive al regista di aver rivisto la “Dolce vita”: “Ti confesso che c’ero andato con il lugubre sentimento di trovare tutto abbastanza offeso dal tempo. Invece sono caduto nel film come se non lo avessi mai visto”. E’ l’effetto che fa oggi nel rivederlo. Non solo è invecchiato bene ma, a causa del Coronavirus, diventa attuale. La pellicola si chiude con un mostro marino arenato nella spiaggia di Torvaianica; un’immagine accompagnata dalle esortazioni di una giovanissima Ciangottini che invita Mastroianni, perduto, appunto, nella “dolce vita”, a trovare ideali ormeggi sicuri. Se il virus mette in crisi tutto il nostro repertorio intellettuale, il mostro di Fellini segna la fine di una stagione vissuta nell’indifferenza verso la reale condizione umana. Era stato esaurito, negli anni ’60, lo slancio idealistico del dopoguerra; con una classe politica senza scrupoli, gli italiani subivano una sorta di privazione d’anima. Flaiano in quel tempo diceva: “Vivere a Roma è come perdere la vita”. Puntuale arrivò il film di Fellini dove tutti sembrano coinvolti in un triste baccanale al quale il protagonista paga il prezzo della solitudine e dell’insoddisfazione; portavoce di una diffusa e vaga coscienza che non si accontenta di una semplice sopravvivenza. Roma guarda Mastroianni e lo protegge con la sua indifferenza amorosa e non cerca di imporgli idee, convinzioni e frequentazioni. Il protagonista vive come un ospite, cittadino senza cittadinanza, straniero con una finta patria, come scrive Pietro Citati nel saggio ”La malattia dell’infinito”.
MAURIZIO LIVERANI