di MAURIZIO LIVERANI
“Ebbene io so come vanno a finire ‘I promessi sposi’. Ma non lo dico, anche perché, detto inter nos, io so come vanno a finire ‘I promessi sposi’ di Manzoni, ma non quelli della Tv. Nessuno può mai dire come vanno a finire i romanzi della Tv”. Ecco un brano – “Forse lo so ma forse no” – desunto dalla raccolta di scritti televisivi di Achille Campanile, del quale ricorre il 4 gennaio l’anniversario della morte, nel 1977. Critiche che gli hanno attirato un gran numero di estimatori quando apparivano sull’”Europeo”. Il piccolo schermo era, per lo scrittore, il pretesto per argute, estrose, paradossali divagazioni. E’ dal 1924, anno dell’esordio teatrale al Margherita di Roma con “Colazione all’aperto”, che si fa risalire a Campanile la paternità del cosiddetto teatro dell’assurdo. D’allora questo autore, tra alti e bassi, ha inventato, snaturato, deformato, falsificato, esagerato, rovesciato, mescolato situazioni per amore dell’ironia. Con un riso che non ha mai nulla di omerico; un mondo assurdo esige uno stile assurdo. E’ un ridere tonificante per quello che ha di bizzarro, di barocco, di “differente” come il risultato delle corse dei cavalli a dondolo. La sua vena era di non obbedire a nessuna regola eccetto quella di servirsi delle parole. Dal teatro Margherita Campanile passa, nel ’25, al teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, nell’umido locale sotterraneo in via degli Avignonesi a Roma. Qui, con “L’inventore del cavallo” si esibisce anche come attore. Nel ’27, nel ’28, nel ’29 pubblica i romanzi di successo, “Ma cos’è questo amore”, “Se la luna ti porta fortuna”, “Giovanotti non esageriamo”, “Agosto, moglie mia non ti conosco”. Quest’ultimo racconto, incentrato sulle conseguenze prodotte dal capitano di una nave e che a passeggeri ed equipaggio, invece di cinture salvagente, dà cinture di castità, incoraggia l’autore a comporre una commedia in tre atti. Al Manzoni di Milano, la compagnia De Sica–Rissone–Melnati mette in scena, con la regia di Salvini, “L’amore fa fare questo e altro”. Era l’anno 1930. Al termine del secondo atto della successiva rappresentazione romana, la commedia venne interrotta per le vibrate proteste del pubblico. L’insuccesso dette alla testa ad Achille Campanile. “L’anfora della discordia”, “La moglie ingenua e il marito malato”, “Il barone e la baronessa Calamai” lo convinsero che il suo contributo al teatro doveva limitarsi a composizioni brevi; la sua vis comica era istintiva, spontanea, non costruita. Prese il toro per le corna e si dedicò alla tragedia in due o più battute, monologhi, racconti minimi. Ecco alcuni esempi: “Lei: a che pensi? Lui: pensavo; sta a vedere che adesso mi domanda a che cosa penso e io non so cosa dirle”. Nella “Guerra” un uomo è svegliato da un bombardamento; ma con il megafono urla alla finestra: “’Questa è l’ora di dormire!’. Gli attaccanti colti di sorpresa sospendono il bombardamento. Gli aviatori si scambiano occhiate di confusione, poi volgono la prua degli apparecchi verso il cielo aperto e, terribilmente mortificati, si allontanano. La guerra è finita”. “In campagna è un’altra cosa (c’è più gusto)”, uno scienziato si rivolge a un pensatore: “’Stavo pensando al Colosseo. Che roba! Deve essere vecchio come il cucco’. ‘Non credo – replica il pensatore – il cucco deve essere anteriore’”. Il pedone all’automobilista che sta per investirlo: “’Suoni la tromba’; l’altro: ‘Non so suonarla, suono il violoncello’”. Campanile sceglie il misero scheletro della risata, la scheggia del ridere presente nel teatro di Ionesco, ma anche – come avvertì il Pancrazi – il “riso scemo di Petrolini”, reagente salutare alla stregua del romanesco “piantala!”. E’ molto facile fare di Campanile il precursore di Ionesco e della metafisica vanità del tutto. Avrebbe, forse, preferito collocarsi a mezza strada tra il Palazzeschi del “Codice di Perelà” e la cinica bonomia di Ettore Petrolini. L’ironia prende atto di come stanno le cose e ne sorride. Campanile, come provano le note televisive, raccolte in “Poltroni numerati”, non è un duellante che si scaglia animosamente contro l’avversario, è un moralista che non mette alla gogna e alla berlina l’ingenuità altrui, la stupidità ovunque e comunque si presenti. E’ un solitario che osserva senza livore le infatuazioni, i gesti teatrali ed enfatici. Non rasenta mai la polemica aggressiva. Sta al di sopra del “fatto” televisivo; non vuole mutare nulla, anzi, persino si compiace di uno stato di cose che gli consente di sorridere. L’ironia è frutto dell’intelligenza non della passione. La mancanza dell’ironia alla Campanile ci rende peggiori. Le sue note critiche ci salvano dalla prepotenza della volgarità.
MAURIZIO LIVERANI