IL NUOVO E’ IN LISTA D’ATTESA

di Maurizio Liverani

Per Matteo Renzi il Pd era già da qualche anno un gran morto che viaggia con il suo suicidio all’occhiello. Da sindaco di Firenze vedeva una sola possibilità di salvezza: inforcare la sua bicicletta, venire a Roma, annullare l’apparato e, con gli sbrendoli dell’antico partito più qualche altro apporto, costituire un nuovo partito per rimettersi nell’avvenire. Aveva capito in anticipo, nella prima assise del Pd cui aveva partecipato, che non era altro che una congrega di fannulloni a caccia di prebende di Stato. Chi cerca di capire in anticipo quello che avverrà tra poco tempo somiglia, come in questo caso Renzi, allo scienziato che cerchi di mettere ordine nel comportamento confuso delle particelle componenti l’atomo. Nella classe dirigente sloggiata dalle Botteghe Oscure non rinvenne alcun fine, un significato; capì subito che sarebbe stato un errore di logica perdere ancora gran tempo in futili diatribe. Capì che per tutti gli italiani il comunismo è sempre stato la terra promessa dell’infelicità e della cupezza, tranne che per gli ex democristiani per i quali la politica come agonia è l’albero della cuccagna, verità appresa alla scuola di piazza del Gesù, sede della Dc. A Renzi questi gli apparvero come i famosi frati trappisti che imponevano il “disagismo surrogatorio”, cioè l’annullamento della personalità per “rimettersi nell’avvenire”. I motivi che lo indussero a sfaldare, anche con brutalità, la combriccola che faceva capo a Pier Luigi Bersani erano dettati da intenzioni nobili. Non gli si poteva dar torto quando sottoscrisse l’accusa al gruppo dirigente di non aver affidato la propria legittimità alla base, ma ai giochi di palazzo. Gli italiani di sinistra, fino allora inascoltati, riconobbero in lui l’”uomo nuovo”. Con partiti come questi installatisi a Montecitorio, le istituzioni gli apparvero subito vuoti simulacri. A questi agit-prop sempre impegnati, come tori imprudenti, a fornire ai loro adepti una visione frenetica di discussioni e di dibattiti, Renzi volle dimostrare di non essere ostile alle diversità di opinioni, al dissenso, al contrasto di idee; il suo argomentare la spuntò. Sembrò che gli iscritti potessero appartenere a un partito incline alla discussione e non a risse ingigantite a bella apposta. Ci si illuse di aver trovato una piattaforma comune. La reprimenda di Renzi, seppur concordata, comportò, per gli agitati, una “dolorosa” autocritica. La commedia dell’autocritica è meccanica pura, un concentrarsi di rigidità. Chi la fa non sminuisce, però, i propri meriti. Matteo Renzi svelò l’astuto gioco e non si lasciò ingannare. Da quel momento si instaurò un’apparente riappacificazione e gli si riconobbero motivi più nobili. La sua statura di politico offuscò quella dei vecchi stalinisti. E cominciò la congiura per sottrargli il seggio da segretario. Renzi, convintosi che il partito non può reggersi soltanto sui risentimenti e sull’invidia, si è dimesso. Non prima di aver posto le basi per una nuova formazione di cui già si conoscono le “premesse”.

Maurizio Liverani