di MAURIZIO LIVERANI
Possiamo passare la vita a rimuginare sui nostri difetti, si ingigantisce sempre più la nostalgia di quell’età dell’oro quando il cinema italiano si avvicinava al vero, anzi alla verità. Quando con il neorealismo si sono dette parole non convenzionali. “Quelle prodezze” sono un ricordo. Hanno diffuso l’illusione che il cinema d’oggi sia uguale a quello di allora. La verità è diversa: sembra lecito ribattere alle generazioni più recenti come siano, proprio loro, a essersi arenate o almeno ad essersi applicate soltanto a sviluppare le premesse dei loro predecessori. Guardiamo il presente. In fatto di “sentimento” ci si è fermati alle riviste patinate. In fatto di costume nulla di nuovo. Ovunque dilaga uno sconfortante spirito di adattamento; tutti si contentano di una buona media, nessuno più osa affermare una decisa personalità. Che fare? Si sono richiamati i “riservisti”, come da un limone spremuto si è cercato di ricavare le ultime gocce vitali di libertà interiore e di ricordi. I film giovani sono girati alla stessa maniera, seguono la medesima forma di protesta; stesso tono spento spacciato per intenso. Su quali basi si fonda la “diversità” dei giovani attori? Ai nostri attori in erba manca quel granello di follia, di provocazione che abbiamo letto negli occhi di Richard Gere. Non potranno essere i figli dei grandi attori a far dimenticare le glorie dei loro padri che hanno compiuto, con geniali cineasti, una delle più grandi rivoluzioni del cinema mondiale. Una rivoluzione che sconvolse gusti e abitudini evasivi. Forse daranno, tra non molto, piacevoli sorprese. Oggi, i film che interpretano fanno toccare il fondo degli incassi. Lo Stato sovvenziona opere bocciate al botteghino. Si attende il risveglio del “dinosauro”, titolo di un film di Carlo Lizzani il quale, appena qualche anno prima di suicidarsi, aveva sentenziato: “il cinema italiano” un “capitolo chiuso, la ricerca esaurita, gli sprazzi di vitalità fittizi”. A queste conclusioni era approdato anche il povero Federico Fellini: “Non c’è più niente che riesca veramente a coinvolgerci”. Tutto spinge a credere che il cinema, per l’Italia, sia ormai un capitolo chiuso. Perché questo cinema che si dice ricco di nuovi talenti naviga nel sonno, tra gli scogli dell’accademia e delle sabbie del conformismo più vieto. La predicazione dell’impegno politico è una forma di istigazione contro l’immaginazione. I veri artisti, essendo più forti, trovano la propria felicità nella solitudine e nel distacco; là dove i non artisti trovano la disperazione. Il vecchio divismo bocciato in blocco chiudendo lo spazio a nuovi talenti. Il cinema italiano ha conosciuto quest’anno il “trionfo del fallimento”. Si è sfasciata l’idea del cinema come arte e divertimento; del cinema arte resta soltanto il ricordo. Un ricordo di una coabitazione forzata tra creatività e commercio.
MAURIZIO LIVERANI