di MAURIZIO LIVERANI
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La consegna dei “David di Donatello” trasmessa dalla Rai sembrava essere una forma di risarcimento al cinema italiano da parte del piccolo schermo che è l’approdo, ormai divenuto inesorabile, della produzione cinematografica. Il pubblico preferisce stare a casa e attende che anche le pellicole di valore, dopo un timido passaggio nelle sale rituali, finiscano nel video. E’ il lamento che il vincitore del David, il regista Garrone, ha rivolto agli spettatori, invocando un’inversione di tendenza. Indurre, anzi, costringere il pubblico a dare la precedenza alle sale cinematografiche e riscoprire il piacere del grande schermo. Il recinto casalingo, cioè il piccolo schermo, mortifica le qualità dell’opera. Il video spoglia il film della sua aristocrazia, perde gran parte del suo fascino. Si rattrappisce la libertà immaginativa, senza la quale il cinema è poca cosa. Scendono le quotazioni della critica, salgono quelle del notista televisivo. In questi anni, il cinefilo somiglia a un predicatore di una fede che sta scomparendo. I grandi gaudenti delle immagini rifiutano questo scambio che avvilisce la qualità dell’opera. Il furore del cinema-cinema scompare. I produttori hanno interesse a mantenere questo nuovo indirizzo perché sono sicuri del guadagno e possono giovarsi anche di autori poco dotati. L’errore dei cineasti è nell’accettare l’intrusione pubblicitaria; a questo “sopruso” si opposero, anni fa, Fellini e Pasolini i quali incorsero, addirittura, in minacce di stampo mafioso. L’arte cinematografica è, così, posta al servizio di qualcosa a lei esterna; crea film già in partenza destinati al piccolo schermo. Il cinema-cinema no, non può convivere con la pubblicità. Un regista doc che ha un suo linguaggio, uno stile inconfondibile non può accettare un elemento estraneo alla vicenda che distrae lo spettatore dalla poeticità delle immagini. Un lembo di cielo, uno sguardo, un fremito di foglie, un gesto di rassegnazione compongono un dramma o una commedia. “L’arte è la magia sottratta alla vergogna di essere realtà”; la formula di Adorno vale, soprattutto, per il cinema-arte. Il video ingoia film a getto continuo. La rivalità tra cinema e tivvù è diventata una guerra, non più una coesistenza competitiva. Siamo in una fase di acuto nervosismo perché il cinema italiano tiene appena il “minimo”. Anche i buoni registi con buone idee sono costretti a dare fondo alla propria furbizia. Chi tende all’iniziativa “extra moenia” sta fuori dai ranghi, da isolato; brevetto di regista-artista l’hanno in pochi. A questo punto va citato Benedetto Croce che nel suo “Breviario di estetica” definisce ciò che arte non è – e cioè, morale, utile, religione, politica, ecc.
MAURIZIO LIVERANI