ILLUSTRI ANTISEMITI

di Maurizio Liverani

Quanto antisemitismo si scopre nelle coscienze di tanti uomini illustri. Nella “Difesa della razza”, diretta da Telesio Interlandi negli anni del fascismo, troviamo nomi di personalità della cultura che non avremmo mai immaginato animati da spirito razzista. Prima del Fascismo molti rettori universitari erano “giudii”. Il grimaldello per allontanarli dagli atenei fu quello di inscenare una violenta campagna antisemita. Si liberarono così molte cattedre che furono poi assegnate a illustri intellettuali che ambivano a primeggiare nel mondo universitario. Questa rivelazione non è di oggi, risale agli anni che seguirono alla caduta del regime. Gli usurpatori, voltate le spalle al mussolinismo, si sottomisero ai nuovi padroni. Il carattere di un vero scrittore è quello di “uomo contro”. Quando si accorse di non esserlo stato, Guido Piovene fece, nel 1952, una impietosa autocritica; nella prefazione al saggio “La coda di paglia” ammette di aver scritto libelli antisemiti durante il ventennio. Al ricatto della “paura” reagì con coraggio e spavalderia. Si attribuì la colpa per mancanza, appunto, di coraggio, sospinto da una “ambizione inquieta e inetta, incapace di veder lontano, a una smania di rimanere a galla a ogni costo”. In questa impietosa autocritica, Piovene parla di una “mancanza di tradizione, di idee e di coraggio politico”, di “carenza di veri maestri”. Il suo modello era Piero Gobetti “capace di formarsi da solo”. Dalla “Rivoluzione liberale” Piovene trasse vigore per dar vita a un liberalismo così definito da Alberto Savinio in “Sorte dell’Europa”: “vita senza fede cieca, senza credo unico, senza assiomi né dogmi”. Piovene si assegnò il compito di smascherare la “truffa” delle idee liberali, consumata anche dopo la caduta del fascismo dalla grande stampa nazionale. Un’altra ammissione di colpa è di Umberto Bobbio. Una confessione che ricalca, quasi a sembrare una fotocopia, quella dell’autore di “Lettere di una novizia”. Anche Bobbio non si perdonò, sinceramente, la sua breve, “utilitaria” parentesi fascista. La sinistra lo assolse incondizionatamente purché rimanesse a “sinistra”. Citiamo questi casi non per spirito di rivalsa, ma per dimostrare come l’alta intellettualità italiana si rese “disponibile” al fascismo per trarne vantaggio. Anche Giovanni Spadolini, da questo punto di vista, può essere catalogato nel drappello dei “birbantelli”. Nel 1944, in piena Repubblica sociale, inneggiò al fascismo in “Italia e civiltà”, rivista edita a Firenze con l’autorizzazione di Mussolini. Con quella sua naturale disposizione alla retorica, lo scomparso senatore scriveva: “Sì, nessuno si tema di confessarlo: Mussolini ha fatto una politica ardita, ardente, perentoria; talvolta prudente, talaltra spregiatrice di convenzioni e consuetudini anacronistiche, nemica dei sentimentalismi e delle rettifiche, ma sempre e solo italiana; orgogliosamene italiana”. La democrazia liberale era, allora, per l’amabile senatore “una forza dissociante e particolaristica, responsabile del crollo”, insieme “ai detriti del giudaismo”. Spadolini aveva già l’aria di un placido monsignore, ma era un giovane di appena… venticinque anni. Alla stessa età, Piero Gobetti moriva lasciandoci in eredità studi storici (“Risorgimento senza eroi” e una biografia di Giacomo Matteotti), dopo aver tracciato con la “Rivoluzione liberale” un’acuta analisi della vita italiana da Cavour ai suoi tempi. Non potendolo sminuire con la delazione, la denuncia e la calunnia, il fascismo decretò la sua fine. Il post fascismo lo ha chiuso nel dimenticatoio.

Maurizio Liverani