di MAURIZIO LIVERANI
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Il problema assillante della televisione, che annuncia sempre di rinnovarsi, è quello del divertimento. I caricaturisti sono a un tiro di voce dal cimitero. I più dotati sono costretti a restare in disparte; per tacitarli danno loro un premio. Il pensiero ora va ai cattedratici. Nello Sàito nella commedia “I cattedratici” (1969) mette in luce, con la sferza della caricatura, peccati e difetti del mondo accademico. Per la televisione testi come questo sono fastidiosi e poi guai a toccare il mondo accademico pieno di arrivisti, crudeli con le menti libere. La cattedra è il simbolo di tutto un mondo, soprattutto, italiano; metafora di una inamovibilità nazionale che, periodicamente, si maschera di spirito rinnovatore. Con il libro “Quattro guitti all’Università” (1994) Sàito lancia un’invettiva lucida e fredda contro una città come Roma, simboleggiata dai marmi dell’Università. L’orrore della verità costringe il nostro teatro alla politica dello struzzo, a contatto con la corruzione si diventa corrotti, disonesti senza nemmeno sapere di esserlo. “Datemi due righe scritte di pugno dall’uomo più onesto”, diceva Richelieu, “e vi troverò di che farlo impiccare”. Ai letterati si dà grande rilievo soltanto alla loro morte, il solo “caso” in cui la parola fine garantisce sulla bontà delle scelte conformiste. Del nichilismo strisciante si fa qualche cenno solo se è perbene. Un tempo, nel giro dei giornali, si facevano entrare scrittori come Vasco Pratolini del quale era nota la militanza nella polizia segreta fascista. Non Pitigrilli, anche lui agente dell’Ovra, ma che aveva il torto di essere ebreo; tuttavia, il regista tedesco Fassbinder voleva trarre un film dal suo romanzo “Cocaina”. Una “svista” della censura è stato il successo di Giuseppe Berto con il suo “Male oscuro”, grazie alla splendida prefazione di Carlo Emilio Gadda. Il Gran Lombardo, per il sostegno dato allo scrittore “repubblichino”, ricevette minacce e telefonate anonime da letterati invidiosi. Come abbiamo altre volte scritto, Cesare Pavese non volle fraternizzare con la conventicola dei letterati romani che considerava “l’incontro di giornalisti, di avventurieri, di scrittori e pittori i quali inventano un’arte riflessa di tipo alessandrino… un modo che fa data e risalta per intelligenza, non per talento”. Secondo una nota legge di Marx, gli avvenimenti storici si riproducono in “chiave di commedia”. “Il nome della rosa” di Umberto Eco, nella versione televisiva, non smantella questo postulato. Punti dal desiderio di non riflettere, i dirigenti Rai incoraggiano i comici da video di occuparsi prevalentemente di campioni sportivi. Si sta preparando una nuova “normalizzazione”. Si assottiglia l’ancoraggio alla politica.
MAURIZIO LIVERANI