IL MALE OSCURO DI VITTORIO

di MAURIZIO LIVERANI

Per conoscere la verità sul male oscuro che ha avvolto gli ultimi anni della vita di Vittorio Gassman bisogna attraversare una miriade di luoghi comuni. Le spiegazioni date sono le più banali: stanchezza, gli anni che passano, “il fumo fa male”. Ennio Flaiano gli avrebbe consigliato un aforisma notissimo: “L’insuccesso mi ha dato alla testa”. Purtroppo Flaiano è morto e il nido dei corvi cerca di separare Vittorio dalla scena. Appeso all’armadio lo stiffelius dell’attore tragico, Gassman ha indossato la tuta più in voga del nostro cinema: quella del sordismo; una derivazione del furbastro pieno di simpatia e di gretto provincialismo incarnato magistralmente da Albertone. Con scrupolo, ha assorbito la faciloneria e la ciabattoneria che contavano per Sordi e che contano per chi vive a Roma. Di lignaggio aristocratico, Gassman ha ingigantito quanto in lui c’era di popolare e di plebeo. Con una compiuta cultura umanistica si è messo sulla strada del sordismo pieno di vizi segreti, di viltà, di pigrizia, di privata anarchia. Ha obbedito ai richiami del cinema industriale; non è riuscito a sottrarsi alla prigionia della macchietta per diventare personaggio. Come attore universale, rinunciando alle facili risorse del repertorio e imponendosi accenti non  farseschi, ha offerto risultati molto confortanti come in “Profumo di donna”. In teatro sapeva interpretare magnificamente l’infamia di Jago, l’elemento demoniaco che corrode le certezze di Otello. Alle prese con un ribaldo di alta e nobile intellettualità, sprezzante dei compunti sacerdoti del teatro italiano, i corvi manovrati da Jago vogliono vederlo nella polvere. In anni di attività, senza cedimenti, senza “appartenenze” Gassman ha fiutato sempre la mediocrità della scena italiana. C’è del marcio del teatro italiano? Sì c’è del marcio; la presenza turpe dei prevaricatori. In un Paese come il nostro dove è così facile avere benevolenza per la sofferenza, è difficile averne nei riguardi del rigore intellettuale di un attore verso il quale abbiamo grandi debiti. Il male oscuro rivelatosi in Vittorio è quello di un grande spirito nato per un’alta attività teatrale. La nostra lo ha costretto a cavarsela con gli stanchi ritornelli che rendono eccitante Amleto. Lo sprezzo per la vita teatrale italiana lo ha spinto a una tenace difesa della propria coscienza di attore e dei propri pensieri di intellettuale. La logica fredda e ineluttabile dello Jago della vita lo hanno portato a una chiaroveggenza che si è colorata, negli ultimi anni, di depressione. Per un certo periodo la depressione ha offerto a Vittorio la grande opportunità di domarla sulla scena in un grande happening con i demoni che germogliavano nel suo animo, liberando anche noi con lui, depressi seduti sulla platea. Shakespeare non ha detto che “la vita, tra urlo e furore, è una farsa scritta da un burlone” (Macbeth)? Vittorio prende la maschera di Jago e dice tutta la verità sui mostri che tormentavano la sua e la nostra anima senza canovaccio, senza la pignolesca precisione dei suoi spettacoli e ci ha aiutato ad uscire con lui dal male oscuro. Ci ha fatto dono di un grande elettroshock scenico. Tra tanti slogan uno (è di Lenin) ci è parso azzeccato: “Se incontrate la paura ridetele in faccia”.

MAURIZIO LIVERANI