LA LEZIONE DI JIRI PELIKAN

di Maurizio Liverani

Esattamente cinquant’anni fa i cingolati sovietici invadevano la Cecoslovacchia e tra la notte del 20 e 21 agosto cominciò la repressione del “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubcek che andava contro le direttive di Mosca; un regime dominato da uno spirito ottuso e arcaico. Capo della televisione cecoslovacca era Jiri Pelikàn il quale ebbe una geniale ed eroica idea: collegò le trasmittenti con tutte le nazioni permettendo al mondo la visione in diretta del sopruso sovietico. Il mondo libero, grazie a Pelikàn, nel 1968, passò in rassegna tutte le forme adottate dai sovietici per fiaccare ogni tentativo di resistenza alla “normalizzazione” imposta dai carri armati del patto di Varsavia. I cecoslovacchi che non si autoaccusavano dell’insurrezione furono considerai traditori. A Pelikàn fu comminata una condanna a nove anni di carcere. La notizia non ebbe risalto sulla stampa italiana nonostante le agenzie l’avessero diramata; censura usata dalla sinistra. Pelikàn raccontò, sulla rivista “Il Dramma” da me diretta, come gli intellettuali cecoslovacchi, firmatari della “Charta 77”, vennero invitati dai comunisti italiani ad adottare una forma di convivenza tattica con l’Urss, legittimando compromessi e opportunismi. La parola “pacificazione” in Cecoslovacchia suonava, dopo l’invasione sovietica, comica e tragica allo stesso tempo. Si pretendeva che la popolazione accettasse l’offensiva pacificazione dopo che era stata spogliata di tutto. “I cecoslovacchi – ripeteva in quei giorni a Roma ai suoi colleghi italiani il regista Milos Forman – vogliono che i russi se ne vadano. Ogni giorno che passa, con i loro soprusi, le loro violenze, cancellano anche nei più tenaci la fede nel socialismo”. I registi si guardarono bene dal solidarizzare con Forman il quale si era illuso che il “disgelo culturale”, inalberato dal Pci, consentisse a un importante regista di Praga di lavorare liberamene in Italia. Licenziato dai cineasti italiani, messo al bando dalla nostra cinematografia, mi giurò che non avrebbe mai più messo piede a Roma. Approdato a Hollywood, girò film come “Hair”, “Ragtime”, “Valmont”. Nel 1975 vinse l’Oscar per il miglior film e la miglior regia con “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Nell’’84 con “Amadeus” vinse un altro Oscar. Con l’invasione sovietica nasceva, in quei giorni, il comunismo in crisi, stretto nella morsa “del pessimismo dell’intelligenza e il coraggio della volontà”, formula gramsciana che consentirebbe ai comunisti di inserirsi in tutti i centri di potere con un corredo di turbamento di coscienza; da allora diventato specialità dell’intellettuale in crisi. A ricordo di questo passato ci sono molti simboli, uno di questi la statua dello studente di Praga, Jan Palach, che, nel 1969, si dette fuoco non sopportando l’invasione. Palach rappresenta il sublime dell’eroico e resterà lì, nella Piazza San Venceslao, a memoria di quanto è avvenuto. “Il post-totalitarismo – scrive Glucksmann nella “Stupidità” – non significa affatto la scomparsa del totalitarismo, ma ne rappresenta lo stato più avanzato, la prosecuzione con altri mezzi, più civili e perciò più puntuali e irreversibili”. Scrive ancora: “Stalin scompare, ma, sorpresa!, il sistema resiste”. Il dispotismo moderno fissa le regole dietro lo schermo di un’apparente democrazia.
Maurizio Liverani