di Maurizio Liverani
I signorotti dei partiti somigliano, in questo periodo di “latitanza” di un governo, a quei drogati che combattono per liberarsi dal vizio. Ogni mattina si recano ai loro posti come se nelle aule riesca loro più facile disintossicarsi. E, come se non fossero stati declassati, attendono un avvenire migliore. Nella loro sentina vive ancora una passione segreta per la presa di tutti i poteri che contano; alcuni compiono una visitina nella cappella parlamentare e, ispirandosi ai protettori (sono tanti) della politica, implorano i ras dei singoli partiti di conservare loro le funzioni che svolgevano. Insomma, recuperare per i loro accoliti i soliti scintillii che avevano prima dello scioglimento delle Camere. Sono gli stessi che si ispirano da una vita a Gramsci; quelli per i quali Craxi avrebbe recuperato le origini del socialismo italiano. Tutti signorotti della politica come se non fosse avvenuto nulla di inatteso. Chi si sente disperatamente impotente suona lo strumento della vanità a un volume sempre più forte. Le parole scorrazzano sulle loro bocche, quantunque vuote danno l’illusione di riempire “lacune mentali”. Alcuni intravvedono prospettive più vaste per la loro carriera; si confortano predicando un impegno politico più importante ed enunciando formule più vaste di quelle adoperate nel passato appena accaduto. Tutti promettono formule per far presa sulla società. Qualcuno che non ha mai espresso un’idea inedita fa conoscere l’alta marea dell’intelligenza che prima non ha mai manifestato. Insomma, ognuno propone il suo pasto politico. Se ci sarà un dopo entreranno nell’ingranaggio della burocrazia del partito scelto dall’ideatore della grande conciliazione. Fuori da questo ingranaggio sono qualcosa soltanto se non escono dalla staccionata dei partiti; sono uomini che non hanno un intrinseco merito. Per tenere la caldaia in bollore e non uscire dai confini del partito, dove vivono giorni di inedia, vivacizzano polemiche secondarie pur di dimostrare che il Paese è sempre pronto al dibattito e allo scontro. L’importante è dimostrare che, nonostante la pausa, hanno un bagaglio di idee, animati da più di un elemento dialettico. I giornalisti, venuta meno la materia prima, per paura di apparire inediti trovano motivi di scontro promovendoli da “secondari” a primari. Sul palcoscenico danno vita a scontri Vittorio Sgarbi e Beppe Severgnini che duettano sul “turpiloquio”. L’argomento cardine del momento è la “parolaccia”; tra breve sapremo se esiste la parolaccia elegante e fine e quella che dà in ciampanelle. I duellanti sono sospinti dall’annosa ostilità che caratterizza lo scontro tra il parlare forbito e il dialogare privo di garbo. I giornali si stanno preparando il vitto per la nuova stagione. Temendo l’irruenza di Sgarbi, Severgnini affila le armi, disposto ad arrivare al brutale insulto. In definitiva, alla popolare parolaccia.
Maurizio Liverani