LA PIU’ BRAVA E LA PIU’ LONGEVA

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI

LA PIU’ BRAVA E LA PIU’ LONGEVA

Può accadere, anzi accade, che un uomo universalmente giudicato un mediocre, per una serie di circostanze, venga improvvisamente additato come un genio. Su questo tema Franca Valeri ha puntato la sua vena parodistica. Va sottolineato oggi alla vigilia della consegna dei David di Donatello; alla più brava e la più longeva delle attrici italiane sarà consegnato il Premio David Speciale 2020. La commedia “Quello lì, Quella là” (1964), di cui è autrice, avrebbe dovuto indispettire molta gente dello spettacolo. Dentro “Quello lì, Quella là” c’è l’idea del possesso totale ed esclusivo. Quante volte non c’è capitato, mi spiegò anni fa Franca, parlando di un regista di chiederci: “E’ un cineasta o un grande filosofo?”. Quando i registi vogliono confidare le loro opinioni sul cinema parlano di “sintassi morale”, di “etica dell’inquadratura”, di “indifferenza metafisica”, di “problematica al limite del possibile”. Cosciente orgoglio? Mitomania? Desiderio di sbalordire? Nella commedia di Franca c’è il ritratto del cinema italiano dalle origini a oggi. La moglie del regista “impegnato” (interpretato dal compianto Vittorio Caprioli) sa benissimo che suo marito non è un genio. Quando lo sposa è uno scioccone, un buon a nulla… in fondo è quello che lei (interprete Franca Valeri) voleva come marito. Cosa chiede una donna della borghesia? Un marito da comandare, da tiranneggiare; un marito che all’improvviso si rivela un genio è un guaio. Da quel momento il “genio” può rifiutarsi al maledetto istinto monopolistico e prevaricatore della donna. In Italia, secondo Franca, il matrimonio nel mondo del cinema non è mai stato messo in crisi dal dubbio fascino del don Giovanni o dalle grazie primaticce di una lolita, ma dalla inaspettata rivelazione che il coniuge è un uomo di valore. Quel pollastrone di mezza tacca può rivelarsi di colpo un artista. Quando “quella là” sposò “quello lì”, lui non aveva alcuna capacità di affrontare il mestiere di marito. La moglie matura rapidamente, mentre lui resta un ragazzone. Un ragazzone che non gode neppure presso la consorte di alcuna stima e che lo calcola quasi come un figlio. La moglie, anzi, lo considera un bambino che non crescerà mai. Al mondo ci sono molti maschi ma pochi uomini, disse una volta Joan Crawford. “Piero”, mi spiegò Caprioli che dello spettacolo era il regista, “era immaturo sin dal primo atto. Nel secondo, grazie al cinema, è problematico. Al termine è poeta. Ha sul volto un sorriso ironico, indulgente”. E’ la trasformazione che abbiamo visto in tanti registi, anche i più illustri. Come reagisce “quella là”? Questo è il nucleo della vicenda. Si tratta di una donna della buona borghesia che vede davanti a sé una vita perfettamente ordinata. Si è assicurata un marito sul quale esercitare il suo dispotismo; “Congenito”, mi spiegò Franca, “nelle donne d’oggi”. Il marito è un regista “impegnato”, l’impegno – è l’idea della Valeri – è venuto a sostituire l’amante. L’impegno è sempre un avversario contro il quale la coniuge non ha affinato le armi. L’uomo impegnato è visto, nella commedia, come un agitato, sospinto dal desiderio di ficcare il naso ovunque per persuadere gli altri e persuadersi di essere importante. Il suo pane è sempre stato la “considerazione”; parla di piogge e di bel tempo in modo da apparire un uomo che ha scoperto i segreti rapporti tra la materia e l’invisibile. I cineasti sono ancora lì come tanti italiani a pretendere che si parli in termini di “epigrafe”: “anime elette”, “esempio di civiche virtù”, se non addirittura di “santi e navigatori”. 

MAURIZIO LIVERANI