LA “PROVA” APPREZZATA DA PERTINI

FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
 
LA “PROVA” APPREZZATA DA PERTINI

Se non volevano asserragliarsi in casa, Fellini e Sciascia avrebbero dovuto corazzarsi le gambe con stivali antiproiettile. Sarebbe stato più prudente perché non si possono sfidare i “frangiflutti” della censura ideologica e poi sperare nell’incolumità. I “pinzocheri” ostili ai due autori si limitavano a colpirli con pallottole di carta, con lividi strali verbali, con tanta rabbia perché si sentivano impotenti a mettere loro il silenziatore. I “frangiflutti” non amavano il film di Fellini in cui, in chiave di metafora, alludeva al pericolo che allora sovrastava l’Italia. Se non stiamo attenti – diceva il regista in “Prova d’orchestra” – a mettere ordine nel gran caos in cui vive il nostro Paese, ci potrebbe essere un “fascismo nero” o un “fascismo rosso”. Dal tempo della “Dolce vita”, Fellini era in sospetto perché non nascose mai di non credere negli schemi e nei decaloghi del cinema conformista. Per configurare l’Italia alla deriva tra scioperi, cagnare e dissesti economici, in “Prova d’orchestra” ricorse alla metafora e all’invettiva allegorica. I “pinzocheri, sempre in allarme nel timore che “passi” qualche film sgradito al Palazzo”, non capirono che la scalcinata orchestra, disordinata, balorda, sorda agli ordini del direttore, era l’Italia, in rovina e in dissolvimento. Il loro stupore è stato grande quando si resero conto del significato politico della pellicola. Ricordavano i funzionari della televisione di Praga, al tempo di Novotny, che si accorgevano come certi film allegorici (che loro approvavano credendoli innocui e docili) contenessero, invece, una carica dirompente, una rovente polemica contro il regime del “gauleiter” di Mosca soltanto quando tali film venivano in Occidente; da essi , la stampa libera deduceva che in Cecoslovacchia qualcosa bolliva sotto il coperchio del regime. Di lì a poco esplose la “Primavera di Praga”. Al modo degli autori cecoslovacchi, Fellini, in “Prova d’orchestra”, immagina che una palla d’acciaio, di quelle usate per le demolizioni, riduca in calcinacci la sala di audizione in cui alcuni orchestrali litigano animosamente anche per faccende sindacali. Prima ribelli e insubordinati, dopo il crollo, impauriti e obbedienti riprendono i loro strumenti e all’imperioso comando del direttore d’orchestra cominciano a suonare armoniosamente. Alla visione privata del film, in cui ero presente, il presidente della Repubblica Sandro Pertini, disobbedendo ai diktat dei “frangiflutti”, si dimostrò entusiasta. “Ma non vede”, lo apostrofò un noto censore, “che è un film reazionario?”. “Nessuno”, replicò Pertini, “può dissentire dalla morale della favola; se non c’è armonia non si costruisce niente. Questo film non è né reazionario né progressista: è solo vero”. Fellini non voleva confondersi con la politica; non voleva farsi immatricolare con i partiti come tanti “disperati” intellettuali, ansiosi di essere scambiati per quello che non si è: per rivoluzionari.

MAURIZIO LIVERANI