LA RABBIA IN CATTEDRA

di Maurizio Liverani

Racconta Stendhal che in Francia se due personaggi con diverse opinioni hanno occasione di confrontarsi arrivano spesso allo scontro; alla fine del quale chi, con le sue argomentazioni prevale, trova il contendente disposto a lasciarsi convincere. In Italia, un dibattito del genere si conclude sempre con chi non prevale che, invece di riflettere sulle opinioni dell’avversario, comincia a odiarlo. Il professore Angelo Panebianco, stimato docente di Scienze politiche all’Università di Bologna e valoroso giornalista, è stato contestato da un gruppo di studenti, figli di quel ’68 che ha cancellato anche nelle aule universitarie il confronto democratico delle idee, incoraggiando il becero sfogo di una rabbia immotivata. L’amarezza nella replica di Panebianco è molto onesta e sana perché fa risalire questo atteggiamento al sessantotto, quando i duellanti si scagliavano contro i cosiddetti baroni, ora mettendoli alla gogna ora alla berlina. Che i conservatori siano conformisti è regola di ogni epoca; ma che siano rivoluzionari è un fenomeno soltanto dei nostri tempi. C’è da dire che il mondo accademico è pieno di arrivisti, crudele con le menti libere, dove il più fastidioso e irriducibile dei gerarchi moderni, il cattedratico, mortifica molto spesso l’apprendimento a un rituale senza vita. La cattedra è il simbolo di tutto un mondo, soprattutto italiano; metafora di una inamovibilità nazionale che periodicamente si maschera di spirito rinnovatore, annaspando tra concetti da comizio. Un indiscutibile acquisto del teatro italiano è stato Nello Sàito (1920-2006) che nel racconto “I cattedratici” mette in luce, con la sferza della caricatura, peccati, difetti, debolezze del mondo accademico. In “Quattro guitti all’università” racconta di un drappello di scalcinati commedianti attratti dal palcoscenico dell’Ateneo di Roma, riservato agli studenti o alle riunioni sindacali. Il rettore li scaccia: “… il teatro non vi serve avete solo la chiesa per seppellirvi… “. A Roma, l’Università è a un tiro di voce dal cimitero. La richiesta dei commedianti fa scattare nel rettore un’idea: “… sono sicuro che con un prezzo ragionevole sarebbero molti, anzi quasi tutti, pronti a vendersi le tombe… in compenso noi ci allargheremo. A beneficio della scienza, naturalmente”. Il pensiero va subito alle “anime morte” di Tangentopoli. Roma, l’Università, il cimitero sono l’anticamera del giudizio finale. Con questo racconto paradossale Nello Sàito ci vuol dire che la cattedraticità è una beatificazione mafiosa. “I professori sono lontani anni luce dagli altri comuni mortali”. Una invettiva, lucida, fredda contro una città simboleggiata dai marmi freddi dell’Università. Sàito è stato costretto a restare in disparte sia da questa avanguardia della putrefazione che dal mondo teatrale; gli hanno dato di tanto in tanto un premio ma non l’hanno mai rappresentato. Ha vinto il Premio Flaiano, il premio Viareggio. Le sue opere teatrali e letterarie hanno il torto, nel conformismo imperante, di mettere sotto i piedi tutte le cautele, i divieti interni ed esterni. L’orrore della verità costringe il nostro teatro alla politica dello struzzo, a contatto con la corruzione si diventa corrotti, disonesti senza nemmeno sapere di esserlo. “Datemi due righe scritte di pugno dall’uomo più onesto”, diceva Richelieu, “e vi troverò di che farlo impiccare”.

Maurizio Liverani