di MAURIZIO LIVERANI
LA SATIRA VIVIFICANTE
Un umorista vero cui la paura di apparire troppo intelligente rispetto ai colleghi toglie la tranquillità. Questo era Pino Caruso, scomparso all’età di 84 anni. La scomparsa ci addolora, soprattutto perché ci priva di un autore che non è azzardato accostare a Ennio Flaiano. Come tutti gli autori comici a tre o quattro dimensioni (umorismo, satira, canzonatura, ironia), Caruso mirava a qualcosa di più della risata automatica, farsesca benché ci fosse anche questa nel suo repertorio. Puntava a provocarci attraverso la rappresentazione di un universo sconclusionato e irriconoscibile come il nostro mondo contemporaneo. Non era un duellante alla maniera dei moralisti; non metteva alla berlina i peccatori. Era piuttosto un solitario, un uomo comune che osserva senza livori le infatuazioni, le insincerità altrui. Non si amava e ci invitava garbatamente a non amarci. Siamo chiusi tra un filo spinato di imperativi sociali e i guardiani sono anche loro gente comune che ci impedisce di trasgredire alla più piccola norma. Il monologo scritto e recitato dall’attore palermitano, “Conversazione di un uomo comune”, ci conferma in una verità che ci perseguita. Abbiamo tutti, chi più chi meno, una certa dimestichezza con molte spiegazioni delle cose; ma siamo stanchi, sia in politica che nella morale, della maggioranza di queste spiegazioni. Nel mistero è l’ultima salvezza: toglieteci le speranze, ma non le illusioni. La disubbidienza era l’arma vincente di Caruso. Sentite: “Ho dei pensieri che non condivido”; oppure: “La memoria dei pentiti è così formidabile che spesso ricordano anche quello che non è accaduto”. Una battuta di Pino ci invita a fare molta attenzione al modo di presentarsi: “Se si accorgono che sei onesto, sei rovinato”. Chi fa sfoggio di onestà è braccato dalla giustizia come un malandrino pericoloso, seminatore di scandali. Era così scontento delle storie sulla Sicilia che si era fatto una storia dell’isola sua propria. “Me lo perdoneranno studiosi, storici, opinionisti? Spero di sì e temo di no”. Con questa lapidaria dichiarazione, l’attore, scrittore, giornalista palermitano ci introduce a una, chiamiamo così, antologia di luoghi comuni sulla “sicilianitudine”. Nel libro “La Sicilia vista da me”, proprio per la paradossalità della forma, è adatta a rappresentare la “totalità Sicilia”; questo intrigato coacervo di poteri che ha fornito alcuni dei grandi scrittori italiani che Caruso cita di continuo e vi trova conforto alle sue osservazioni. Sciascia, Lanza di Lampedusa, Lucio Piccolo; tutti concorrono nel fargli scrivere: “Ogni onesto vive il paradosso di doversene vergognare; dal che mi si presentò alla mente bell’e fatto un aforisma: ‘se sei onesto e ti scoprono datti alla latitanza’”. “Un mistero fitto aleggia su ‘cosa nostra’ sarebbe meglio dire un mistero lampante… Da chiarire c’è rimasto soltanto che la mafia non è mai stata un mistero”. La strategia del pentitismo, di cui tanti giudici vanno fieri, ha consentito l’apertura di un nuovo capitolo: “Dal silenzio alla loquacità”. “Soltanto un ingenuo può pensare di cambiare il mondo, semplicemente rompendo lo specchio che lo riflette”, come è ingiusto condannare “Tano da morire”, il musical che fa ridere con la mafia. In teatro Pino riusciva a conciliare gli scherzi controversistici con l’accusatore dolente di una società, come nel monologo “Venga a prendere il caffè da noi, Ucciardone cella 36”. Caruso non braccava il facile folclore, né cercava sapienti concessioni alla maniera dei “toscani” del cinema. L’ambizione segreta di Pino era di non rimanere soltanto nel teatro, ma di ben figurare tra gli storici e gli opinionisti. Le apografi cervellotiche come quelle di Pino hanno sempre avuto un freno nell’invettiva e, insieme, una dedizione all’intelligenza.
MAURIZIO LIVERANI