di Maurizio Liverani
Abbiamo più volte ricordato come Ferruccio Parri, il famoso Maurizio della lotta di Liberazione, affermasse che “l’Italia ufficiale con le sue fanfare si è accorta della Resistenza dopo il 1960”. Perché nel ’60 e non prima? La ragione è semplice: i responsabili delle avarie per non affondare, non sapendo più a che santo attaccarsi, tentarono di puntellare, già allora come stanno facendo oggi, la barca con le stampelle mal ferme dell’antifascismo. All’intervistatore de “Il Giorno” che gli chiedeva: “Non ha mai avuto grandi speranze?”, il capo partigiano rispose: “Io no, erano speranze retoriche da comizio”. Quali speranze hanno oggi i nostri governanti? E’ sconcertante la loro povertà di idee. Si riducono alla pura e semplice conservazione del cattocomunismo. Per spiegare il fallimento dei suoi ideali da comizio, Parri non riuscì a sottrarsi alla tentazione di prendersela con gli italiani. “Qual’è la cosa che l’ha più delusa nella vita?”, incalzò l’intervistatore. Risposta: “Il popolo italiano”. La stessa risposta offerta da tante “guide” della coscienza collettiva (Bobbio, Bocca, Montanelli, Scalfaro, Biagi). Non ricordo chi abbia detto essere il disprezzo del popolo necessario a chi vuole usarne e abusarne. Con più acume, Pietro Nenni non tentò di nascondere, negli stessi anni, le proprie responsabilità asserendo che l’Italia era diventata una “democrazia senza demo, cioè senza popolo”. Fece scalpore la polemica sorta tra Indro Montanelli e alcuni direttori di telegiornali per un fotomontaggio che illustrava eminenti giornalisti del passato regime, lui compreso. Quanto fascismo si scopre nelle coscienze di tanti uomini illustri; per esempio, ne era stracolmo Giorgio Bocca che sul saggio “Filo nero” dice che lo sono tutti gli italiani. Perché meravigliarsene? Il carattere meccanicistico-mistico del nostro tempo crea il fascismo e non viceversa, scrive Wilhelm Reich nella “Psicologia di massa”. Aggiunge: “Non è possibile rendere inoffensivo l’energumeno fascista se non lo si rintraccia nel proprio essere”. “Fascismo nero” e “fascismo rosso” sono, per Reich, una amalgama tra emozioni ribelli e idee sociali reazionarie. E’ questo un fenomeno internazionale che corrode tutte le società. Lo si combatte con il liberismo. In “Sorte dell’Europa” Alberto Savinio parla del liberalismo come “vita senza fede ceca, senza credo unico, senza assiomi né dogmi”. Questa “forma più matura e migliore di ogni organizzazione politica” non sottomette la cultura, non la strumentalizza. La “feroce energia”, tanto ammirata da Stendhal negli italiani, si è devitalizzata -con il fascismo “nero” prima e con il fascismo “rosso” dopo- nei rivoli del compromesso e della sudditanza. Dalla sottomissione delle intelligenze hanno origine la delazione, la denuncia, la calunnia e persino il pettegolezzo. Se lo scrittore, in Italia, è raramente libero, la causa va ricercata nell’egemonia che i politici cattocomunisti hanno esercitato sulle élite culturale e artistica. Sono nate così opere di puro intrattenimento o lambiccati racconti dove lo spirito creativo cede il passo a composizioni filologiche contrabbandate per romanzi. Oggi si sospetta una momentanea depressurizzazione di questo regime. In verità non si è mai visto svanire uno stato di cose come il nostro senza traumi, per semplice attrazione del vuoto. Dal punto di vista balzachiano anche Giovanni Spadolini è stato un birbantello. Nel 1944, in piena Repubblica sociale, inneggiò al fascismo in “Italia e civiltà”, rivista edita a Firenze, appunto, nel ’44 con l’autorizzazione di Mussolini. Con quella sua naturale disposizione alla retorica, il defunto senatore scriveva: “Sì, nessuno si tema di confessarlo: Mussolini ha fatto una politica ardita. Ardente, perentoria: talvolta prudente, talaltra spregiatrice di convenzioni e consuetudini anacronistiche, nemica dei sentimentalismi e delle rettifiche, ma sempre e solo italiana”. Spadolini aveva già allora l’aria di un placido monsignore, ma era un giovane di appena venticinque anni. Alla stessa età Piero Gobetti moriva, lasciandoci in eredità studi storici (“Risorgimento senza eroi” e una biografia di Giacomo Matteotti) dopo aver tracciato con la “Rivoluzione liberale” un’acuta analisi della vita italiana.
Maurizio Liverani