FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
L’ATTORE SI INCHINA AL DOPPIATORE
Sono lontani gli anni in cui per amore del cinema-cinema René Clair dichiarava guerra alla parola, profetizzando l’avvento di un’arte totalmente “nuda”, che non eccitasse altre emozioni se non quelle partite dall’occhio. Da allora ne è passato del tempo; oggi, senza i nostri doppiatori, i migliori del mondo come Cucciolla, Cigoli, Locchi, Amendola, il cinema hollywoodiano non avrebbe straripato sugli schermi nazionali, debordando sino a “uccidere” il nostro cinema. In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti esigono che il volto non sia disgiunto dalla voce, i divi debbono esprimersi con la propria voce. In Italia, quando un regista ha bisogno di un protagonista giovane per una parte drammatica deve chiedere in prestito al cinema straniero. Di preferenza si attinge al cinema francese nonostante il nostro vivaio teatrale non sia mai stato povero di attori giovani. Ci si è illusi di risolvere il problema, anni fa, in modo decisivo con i “presi dalla strada”. Finita l’effimera stagione dei “poveri ma belli”, non abbiamo avuto attori cui affidare parti serie. Uno solo se ne è trovato nel magazzino del cinema italiano: Marcello Mastroianni. Le prove positive offerte da Giorgio Albertazzi e Gabriele Ferzetti in alcuni film non sono bastati a fare di loro attori internazionali. C’è stato Raf Vallone, abbastanza considerato all’estero. Il caso di Rossano Brazzi sta a sé. A Hollywood indentificarono in lui il tipico “latin lover”. C’è stato, è vero, Enrico Maria Salerno, attore di valore, particolarmente adatto per parti serie di uomo moderno, ma anch’egli ha seguito la strada di Vittorio Gassman. Per anni, Vittorio, tra Hollywood e Cinecittà, ha sostenuto ruoli che riecheggiavano quelli da lui interpretati sulla scena. Appeso all’armadio lo “stiffelius” dell’attore tragico, ha indossato la tuta più in voga del nostro cinema: quella dell’italiano “scafato”, furbastro, pieno di simpatia e di gretto provincialismo. Alberto Sordi ha incarnato alla perfezione l’italiano pieno di vizi segreti, di viltà, di pigrizia, di privata anarchia, di pregiudizi e di superstizioni. Gli industriali dello schermo hanno sempre sostenuto che è il tornaconto commerciale a spingere il cinema su questa strada. Il tempo ha dato loro torto. L’esigenza commerciale ha spinto, anni fa, la cinematografia verso film alla 007 che gli italiani non sanno o non possono fare per mancanza di mezzi e di divi capaci di porsi a livello di Sean Connery. Dopo aver girato molti film, Sordi ha cercato di sottrarsi alla prigionia della macchietta per diventare personaggio. Anche Ugo Tognazzi ha voluto mettere la sordina alla sua istintiva comicità ed è l’attore che ha raggiunto in questo senso i migliori risultati. Così in Nino Manfredi c’è sempre stata la preoccupazione di amministrare bene il proprio successo evitando film sciatti. “E’ sui divi che appoggia la fortuna di una cinematografia”, sosteneva il produttore Levine, il quale fece il tentativo di rilanciare il divismo arcaico – quello degli anni ’30 – per contrapporlo a quello cerebrale, moderno che gli inglesi imposero intorno agli anni ’70. Chi segue sul video i telefilm dell’Ispettore Barnaby, impersonato dall’attore John Nettles, si è accorto come la qualità degli attori anglosassoni è di gran lunga migliore sia negli interpreti principali sia nei caratteristi. Gli incassi, si sa, si fanno su un volto e su un nome.
MAURIZIO LIVERANI