di Maurizio Liverani
Ha indotto a un sentimento di gratitudine la riapparizione del “nostro sacro” Massimo Girotti ne “Il mostro” (1994) di Roberto Benigni. Il “caso” Girotti è emblematico nel cinema italiano. Il prevalere dell’attore dialettale, del burlone romanesco “diverso”, etnicamente e culturalmente, da quello meneghino ha emarginato l’attore nazionale per eccellenza. Massimo Girotti è stato sopraffatto dalla “commedia all’italiana”. Dopo la straordinaria prova di “Ossessione” (1943) di Luchino Visconti, si è ristretta, invece di ampliarsi, la sua presenza sullo schermo italiano; lo abbiamo rivisto nel “In nome della legge” (1949) di Pietro Germi, in una piccola parte di “Senso” (1954) e nella “Cronaca di un amore” (1950) di Antonioni. Negli ultimi anni lo stile sobrio, signorile – di intelligente espressività – hanno paradossalmente reso sporadiche le sue apparizioni. Nella sua recitazione sono assenti ammiccamenti comici e non c’è traccia di furbizia “romanesca”, elementi che hanno fatto la fortuna del nostro cinema, ma anche la sua presente disgrazia, condannandolo alla ripetitività. Distruggendo una gloriosa tradizione, un uomo, incapace artisticamente di esprimere null’altro all’infuori della propria presenza, ha accantonato, con il “neorealismo”, l’attore vero e proprio. I pescatori di Acitrezza della “La terra trema” (1948), come Lamberto Maggiorani, protagonista di “Ladri di biciclette” (1948), sono state vittime del vezzo di sacrificare gente intenta al proprio lavoro con l’illusione di un effimero trionfo; impossibile da conseguire e da conservare senza preparazione né vocazione nell’insidioso mondo del cinema. Un autentico regista neorealista avrebbe potuto fare un film sulla loro singolare ‘escalation’ sociale. La storia: bravi giovani dalle facce oneste costretti a recitare la loro parte di “sottomessi” senza mutamento. Nel caso delle attrici, è tramontata l’epoca di quelle dotate soltanto di “robe sode” (per dirla con l’Aretino) “prese” dai concorsi di bellezza. La bellezza è pura spontaneità. Lo asserisce Oscar Wilde; nel suo Dorian Gray scrive: “La bellezza è un aspetto del genio, anzi è qualcosa di più del genio perché non richiede alcuna spiegazione”. Per una Loren, per una Lollo, per una Bosé (per parlare solo del passato), quante sono rimaste vittime dell’avvenenza? Virna Lisi è stata capace di mettere al servizio del cinema una vocazione e uno studio. La fantasia, l’ironia e anche la pateticità le hanno indicato, sin dagli esordi – “La donna del giorno”, film del ’57-, la strada del successo. In questa donna e in questa volontà di risolvere il problema della propria personalità, c’è qualcosa di ibseniano. Virna ci è sempre apparsa come una piccola parente della Nora di “Casa di bambola” (1973); pur trovando nella coniugalità grandi e comode soddisfazioni.
Maurizio Liverani