FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
LE SCUSE DI ROBERTO A INDRO
Ormai è chiaro a tutti che Marx è stato un tentativo di sostituirsi alla mancata realizzazione degli ideali metafisici. Non ha vinto il capitale, ha prevalso il capitalismo che ne è uscito sano e salvo; la sua “barbarie” ha ancora la possibilità di sopravvivere perché in sintonia con la scelta di essere progressivi pur avendo un animo chiuso nella “reazione”. Quando la politica non era ancora incappata nella trascendenza verso il basso, c’era chi si inventava di aver fatto la Resistenza. Era il fiore all’occhiello di chi non era certo di essere di destra o di sinistra. Contrapposizioni di comodo per fare carriera. Di questo Indro Montanelli si rese perfettamente conto quando fu adattato allo schermo il suo racconto “Il Generale Della Rovere”. In una intervista, rilasciata al sottoscritto, affermò come Roberto Rossellini avesse tradito lo spirito dell’opera letteraria. In sostanza, il pregiudicato Bertone, detenuto a San Vittore, si spaccia per “volontà” delle SS nel generale Fortebraccio Della Rovere, collaboratore di Badoglio sino al punto di appropriarsi della personalità dell’alto graduato per una sorta di immedesimazione “pirandelliana”. Mentre Rossellini ne fa il ritratto di un ravveduto al punto di diventare un eroe della Resistenza. Le intenzioni di Montanelli furono stravolte. O Rossellini non le volle rispettare, obbedendo a Sergio Amidei (famoso sceneggiatore) il quale voleva fare un ennesimo film sulla guerra partigiana, o si trattò di un semplice stravolgimento dell’originale. Si sa che una fede ostentata, gridata nel “resistenzialismo”, oltre ha dare connotati di bello spirito a chi la professa, lo pone al riparo da investigazioni di ogni tipo. Fregiarsi del titolo di eroe della Resistenza, come durante il fascismo del titolo di sansepolcrista, garantiva, nel dopoguerra, ammirazione, rapida carriera, ampie possibilità di integrazione. Anche gli appartenenti all’aristocrazia del denaro hanno potuto darsi un alone di alta intellettualità. Roberto Rossellini, da esperto di totalitarismi (anche di quelli occulti), capì subito quale aria tirava in Italia dopo la caduta del regime. Aveva diretto film come “La nave bianca”, “il pilota ritorna” e con “L’uomo della croce” assertore dell’asse Roma-Berlino. Resosi molto ambizioso dal successo di “Roma città aperta”, non si accontentò di essere secondo a nessuno. Pieno dei ninnoli della gloria, entrò nel culturame democristiano nel quale, per primeggiare, non era necessario alcun dispendio intellettuale. A un artista, secondo Bertold Brecht, è permesso. Ancora oggi ci si preoccupa di dire che Rossellini non è stato fascista. Un cineasta del suo talento era assorbito soltanto dal suo talento, come ha affermato il compianto Camilleri, l’autore di Montalbano, “gli autori erano più liberi nel fascismo di quanto lo siano oggi”. Rossellini era irritato contro l’epoca presente e dalla noia delle prese di posizione. Riuscì a farsi perdonare da Montanelli il tradimento del “Generale Della Rovere”, inevitabile per vincere il Leone d’oro nel 1959, anno in cui fu coniata la derisoria battuta: “Entra sua eccellenza, si inchina a sua eminenza ed inneggia alla Resistenza”.
MAURIZIO LIVERANI
(nella foto, sulla sinistra Indro Montanelli, sulla destra Maurizio Liverani, tra Franz De Biase, Luigi Torino ed Ettore Della Giovanna, alla riunione di Giuria della prima edizione del Premio Rizzoli, 1975)