FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
L’IMPEGNO NON E’ PIU’ DI RIGORE
Si sa che l’estetica e la teoria del cinema sono coltivatissime nei paesi poveri. Il neorealismo è stato il frutto di deficienze contingenti che ha indotto i registi a scoprire la strada e il “signor primo che passa”. Al voto di povertà delle arti il cinema neorealista, ribattezzato in Francia “miserabilismo”, sostituì il voto di ricchezza. De Sica, Zavattini, De Santis per primi si impegnarono con storie di forte impronta sociale; alcuni erano sinceri, altri non lo erano affatto. Tutti aspiravano a mettersi presto al riparto da preoccupazioni monetarie. Il critico che non si prestava al gioco del dare e dell’avere correva il rischio di perdere il posto. Per aver scritto su “Paese Sera” che “’Riso amaro’ (1949) è del regista De Santis, iscritto al partito”, Alfredo Orecchio si vide togliere, qualche mese dopo quella gaffe, la rubrica cinematografica. D’altra parte il regista che cercava di sottrarsi all’abbraccio di Botteghe Oscure rischiava, come minimo, l’accusa di insufficienza virile. Un’accusa del genere toccò a Federico Fellini allorché con “La strada” (1954) e “Le notti di Cabiria” (1957) tentò vie più complesse della semplice denuncia delle piaghe sociali. Il fatto che Gelsomina e Zampanò fossero due vagabondi non due contadini o due operai e si ponessero al di fuori di qualsiasi sistemazione sociale non entrava nella sfera della cultura. “Per Togliatti – scrive Lucio Colletti, ex comunista, nella sua ‘Intervista politica-filosofica’ – la cultura era separata e giustapposta alla politica. Togliatti sfoggiava una cultura tradizionale di tipo retorico e la sua politica non aveva alcun legame organico con essa”. Il cinema, per il Migliore, non rientrava nella sfera della cultura. Il suo film preferito” era “Don Camillo e l’on. Peppone” (1955); vedeva Guareschi come il precursore del consociativismo. Nel 1919, Lenin disse: “Il cinema è per noi l’arma più forte”. Era un’intuizione esatta e di un significato quasi incalcolabile. Lo schermo divenne, nell’Urss, schermo di Stato al servizio dello Stato. Lo Stato era retto dall’ideologia marxista; lo schermo, da allora, non si è stancato di servire l’ideologia e il regime. Quando, molti anni fa, con ”L’infanzia di Ivan” (1962) il regista Andrej Tarkovskij dimostrò di essere titolare di una individualità insofferente alle regole del realismo sovietico, fu costretto a scusarsene. Messo in castigo per alcuni anni, Tarkovskij ha potuto successivamente realizzare “Rubliov” (1966) e, poiché si era dimostrato recidivo in quanto a individualità e indipendenza di giudizio, fu nuovamente riprovato. In Italia, quando una nobildonna veneziana, Marina Cicogna, approdò al cinema, portando molto entusiasmo e moltissimi soldi, la frase di uno sprovveduto produttore la colpì singolarmente: “Non appena i marxisti si renderanno conto che il cinema può sfuggire al loro controllo, cercheranno di decretarne la fine”. Quel produttore aveva visto giusto. La forma dissimulata, indiretta, lenta, vellutata con la quale i marxisti cercano di strangolare il cinema privato (favorendo quello statale) va pensare ai sistemi punitivi di antiche, misteriose teocrazie; agli impalpabili sistemi di una vendetta cinese. In Francia, i socialisti, con Mitterrand in testa, non hanno mai dato eccessiva importanza al cinema, considerato un mestiere che sottrae vocazioni alle altre arti. Poi le cose si sono “evolute”.
MAURIZIO LIVERANI