L’INSULTO DEFINITIVO

di Maurizio Liverani

Superate le “resistenze interiori”, Achille Occhetto è uscito dal ghetto degli esclusi nel quale si era volontariamente relegato per togliersi, con sottile piacere, la sadica voluttà di tenere in allarme gli usurpatori. Considera gli attuali leader postcomunisti gentucola. Con un sorrisetto sulle labbra, convinto che la commedia del leader supremo soltanto lui possa recitarla, ha definito Massimo D’Alema “killer”. In quel groviglio di contrasti, come cariche di tritolo, alla “Marx-story” mancava questa definizione di un ex compagno per affidare se stesso a una probabile rivincita. Alla famosa Bolognina, Occhetto aveva dichiarato il suo partito non più comunista, ma social-liberale. Quella svolta era una mossa tattica per imbrogliare le carte e dare fumo negli occhi. Il suo intento non era quello di riunire il gregge dissestato del pci, bensì quella di colpire D’Alema, Piero Fassino e, in sottordine, anche Fausto Bertinotti. Gli ex, i post, i neo comunisti lo paragonarono a un kamikaze che sgrana lugubremente tutto il suo rosario di contumelie contro la sinistra moderata di cui vuole sbarazzarsi “costi quel che costi”. Il marxismo da “oppio degli intellettuali”, come lo definisce Raymond Aron, avrebbe dovuto diventare, secondo Occhetto, l’oppio di un intero Paese. Invece, conquistava da “morto”, da “flatus vocis”, da “idola mentis” quell’egemonia che non era riuscito a ottenere da “vivo”. La svolta della Bolognina era una trovata che non ripudiava nulla. Non essendoci nel partito più solide posizioni, i sopravvissuti  gareggiavano tra loro allo stesso modo dei gangsters per prendere i primi posti. Da allora in Occhetto nacque il diabolico disegno di tenere il partito alla mercé di impensati cataclismi, approfittando della considerazione in cui era tenuto soprattutto tra i giovani, sempre dimostrando di abbeverarsi alla sua saggezza, alla sua autorevolezza; grazie a un’aurea di notabile, progettava soltanto di dar sfogo al suo risentimento sfaldando la leadership di D’Alema. Mandiamo via questo azzeccagarbugli -era il suo intento- e vinceremo le elezioni. Il grande, unico, vero ideale del dalemismo era di sentirsi sicuri mentalmente e materialmente. Alla propagazione di questa sicurezza contribuì la Cia affidando a questa pseudo sinistra la guerra nel Kosovo perché gestisse il conflitto senza timore. Un monopolio che, dopo aver dato i suoi frutti grazie al servilismo del governo di allora, retto da D’Alema, passò ad altre mani. La Cia, dopo averlo tenuto a frollare come un pollo al gancio dei suoi interessi, infatti lo ha lasciato cadere. In Italia la partita si vince sempre al tavolo della “sovranità limitata”. I poteri forti, come è sempre stato, anelavano, con D’Alema, ad avere un governo travicello. Alla Bolognina, ne abbiamo finalmente la conferma, sono sopravvissuti gli appartenenti al ramo dozzinale della sinistra.

Maurizio Liverani