L’INTERVISTA FLAGELLO

di Maurizio Liverani

L’intervista a Massimo D’Alema occupa un’intera pagina del “Corriere della Sera”. Intere colonne dove si ricava la conferma che nella composizione di quella lega che si chiama politica l’uomo conserva l’aureola di condottiero non grazie alle opere e agli atti, bensì grazie all’età. Di “baffetto”, così lo chiamano i compagni, è assai difficile alimentare il prestigio-mitico; da quello che dice all’intervistatore è arduo presentarlo come un nuovo stratega; sarà sempre un politico senza grandi connotati. Prima che sia considerato come uomo provvidenziale passeranno degli anni; si incrementa la fama ricordando le imprese fallite di quand’era un leader, purtroppo, ascoltato. E’ impossibile con lui attuare un’opera di mitizzazione; è un sub-archetipo di “guida” neppure adatta alla temperia attuale, dominata da quello che dovrebbe essere considerato il suo partito ricco di mezze figure e mezze calzette, rapportate ai divi di un tempo. Sollecitando interviste, D’Alema cerca di avvolgersi di una certa autorevolezza non trascurando il dinamismo del “tira a campare”. Ha il vizio capitale proprio della sinistra: la dissimulazione della verità. Regola generale, in questo momento, è dirsi disposti alla collaborazione burbera. Si dice favorevole al dialogo, fingendo di ignorare che ormai il suo partito è rabbia, focolaio di odio, dove i validi, come Piero Fassino, sono ripagati con l’ingratitudine e i saggi non sono ascoltati. Soltanto chi ha la fortuna di vivere lontano ne apprezza l’antica vitalità, ma si tratta di un inganno del sentimento; meglio l’esilio che libera dall’invidia e dai soprusi. Il togliattismo si può contemplare soltanto stando lontano, ma molto lontano dai suoi eredi. Chi ricorda quell’epoca non torna più e non si perdona di aver dato credito a tanti falsi maggiorenti. Se per disgrazia le cose per lui andassero bene indurrebbe legioni di postcomunisti a darsela a gambe. D’Alema si riconosce di essere maestro nella pratica di screditare chi predomina tra i ronzini del suo partito; vorrebbe portarsi in prima fila ostentando una faccia capitanesca. Avendo un’alta concezione di se stesso, non accetta la sottomissione di chi, in questa nuova sinistra, guarda, illudendosi, lontano. Quando si leggono le sue repliche all’intervistatore, scorre davanti agli occhi una sequela di fallimenti e una assoluta mancanza di elasticità solidale. La realtà concreta delle cose è sintetizzata da chi gli è ostile: “lui odia”. Avendo l’indole del predicatore, predica soprattutto se stesso, ora come viticoltore, attività dove è veramente fabbro del proprio destino. Chi non apprezza la sua altezzosità ha fiducia nel tempo, nella speranza che questo tempo sarà stipato, sempre più in fretta, di rottamati. Le quotazioni dell’odio anche nel nuovo corso del partito sono sempre stabili. Di carismatico, in Italia, c’è, appunto, soltanto l’odio.

Maurizio Liverani