L’ODOROSO ENTUSIASMO VITALE

di Maurizio Liverani

Sono ormai trascorsi quarant’anni dalla morte di Ercole Patti (foto), scrittore di “Pagine odorose”, come ricorda Valentino Bompiani in “Dialoghi a distanza”. Per me, oltre che uno squisito scrittore, era un grande amico; con il puntiglio di intrugliarsi nel volgo dei critici cinematografici. Che io ricordi, il solo inviato ai festival non disposto a restare vigile alle proiezioni riservate alla critica e a riconoscersi il diritto di dormire, seduto nelle prime file, era proprio lui, Ercole Patti, per gli amici Ercolino. Non appena si spegneva la luce in sala per la visione “critica”, il sonno – invano cercato tutta la notte – gli bendava gli occhi. L’autore dei “Quartieri alti” (1940), di “Giovannino” (1953), di “Graziella” (1970), una lolita siciliana, concepiva i festival un’occasione per concedersi una vacanza. “Come per i romani la guerra era un tempo di riposo”, mi diceva, e io che gli sedevo accanto, per impedirgli che l’appisolamento sconfinasse nel russare, gli raccontavo la trama. “Mi piace come scrive Ercolino”, mi disse tanti anni fa l’indimenticabile Arturo Tofanelli, direttore del ‘Tempo illustrato’, “scrive in maniera semplice non alambiccata alla maniera dei critici d’oggi”. In una raccolta di recensioni cinematografiche, uscite durante il fascismo, Ercolino è citato a pié di pagina per la sua critica all’”Assedio dell’Alcazar” (1940) di Augusto Genina, un film filo franchista sulla guerra di Spagna. “Ne dissi bene”, confessò scherzosamente Patti, “ma non mi sembra a favore di Franco”. Sandro De Feo, il critico teatrale dell’”Epresso” negli anno ’50 che, nella raccolta voluta da Mussolini, è citato per il suo ardore fascista (“il senso dello squadrismo è immortale”),  disse, indispettito, a Patti: “E come potevi accorgetene tu, se dormivi sempre!”. L’accusa tremenda di “fascista”, assai in voga, non sfiorò mai Ercolino, grazie ai suoi sonni durante le proiezioni. I delatori schiumavano rabbia. Anzi, Ercolino si fece fama di antifascista e venne arrestato e chiuso a Regina Coeli. Mentre durante l’occupazione nazista molti intellettuali in odore di antifascismo si erano “volatilizzati”, Patti, grazie al suo incoercibile ottimismo, radicato al suo carattere, centellinava la dolcezza delle “ottobrate romane” che gli avevano suggerito le più belle pagine di “Quartieri alti” e di “Un bellissimo novembre”, vagava per Roma soprattutto a via Veneto. Neppure le SS con le Brigate nere potevano rompere il labile e dolce fluire di quelle giornate romane. Un mattino di metà ottobre, al telefono una voce gli chiese: “Il dottore è in casa?”. “Sono io!”, rispose con fervore Ercolino. Al posto dell’addetto alla riparazione della ghiacciaia si presentò il federale di Roma. “Molto educatamente e un po’ dispiaciuto”, mi raccontò, “esibì un mandato di cattura… Era un brav’uomo, chissà che fine avrà fatto!”. Il suo ottimismo contagiò persino Giuseppe Saragat che Ercole conobbe nel braccio dei detenuti politici. Al futuro presidente della Repubblica, che avvertiva l’avvicinarsi del peggio, anzi del pessimo, l’autore di “Un amore a Roma” (1954), “Cronache romane” (1962), “Roma amara e dolce” (1972) disse durante l’ora d’aria a Regina Coeli: “La prego, signor Saragat, non faccia la Cassandra!”. Di lì a poco le Fosse Ardeatine nelle quali sarebbe caduto anche lui se, con altri detenuti politici tra i quali Saragat, non fosse evaso il giorno dello sbarco degli alleati a  Nettuno, alla fine del gennaio dei ’44. L’aneddottica sull’ottimismo dello scrittore catanese, cui il padre, nel ’27, aveva acquistato un attico sul lungotevere Flaminio, è straripante. Lo “isolava” ricordava Bompiani, dagli altri intellettuali “l’odoroso entusiasmo vitale”, un entusiasmo che trasferiva nel sonno davanti allo schermo. Non in teatro. Con la scena ebbe rapporti attraverso il “Teatro degli Indipendenti” in via degli Avignonesi a Roma. Lo dirigeva Anton Giulio Bragaglia. Tra gli altri scrittori, Camapnile, Alvaro, Bontempelli, Aniante, Patti propose un racconto dal titolo “La giostra” che, sulla scena, si chiamò “Carosello”. Lo recensì favorevolmente Galeazzo Ciano, il futuro ministro degli Esteri, sul “Nuovo Paese”. “Allora era solo il figlio del sottosegretario. Il fascismo aveva una faccia non allarmante; non c’era ancora aria di delitto Matteotti”, mi spiegò Ercolino. Ciano aveva un atteggiamento anticonformista rispetto al regime; mise in scena una “Tragedia in due battute” di Campanile. L’amicizia tra Ercolino e Ciano, nata al “Teatro degli Indipendenti” si consolidò. Patti girava il mondo per la “Gazzetta del Popolo”; Ciano era già sposato con Edda Mussolini. A Shangai si incontrarono. “Mi fece gran festa”, mi raccontò, “eravamo rimasti amici. Si offrì di accompagnarmi e per strada mi disse: ‘ti preparo un atto unico alla Campanile’. C’erano alcuni conduttori di riksciò in attesa. Galeazzo fece un gesto, li raccolse tutti intorno a noi e intimò: ‘Saluto al Duce!’”. E siccome quelli non conoscevano il Duce e si guardavano stupiti, Ercolino, per non deludere l’amico e pensando di fargli piacere, gridò: “Viva il Duce!”. Ennio Flaiano, che per via dei sonni-critici lo aveva battezzato “una salma al cinema”, lo chiamava anche, goldonianamente, “fascista de’ garbo”. Tutto, per Patti, meritava cortesia. Anche la morte.

Maurizio Liverani