L’ORCHESTRA DI FELLINI: ATTUALISSIMA QUARANT’ANNI DOPO

di MAURIZIO LIVERANI 


– Ricorrono venticinque anni dalla morte di Federico Fellini; considerato “genio” nonostante implorasse di essere trattato come un comune regista, valutando gli elogi come prese in giro. Ricordo che, nel 1963, il Leone d’Oro al Festival di Venezia venne fatto assegnare a “Mani sulla città” di Francesco Rosi. Molta sorpresa, ma nessuna indignazione. Si aveva la conferma che i comunisti avessero un tetro e fanatico bisogno di far sentire ai cineasti e agli intellettuali il proprio potere. Molti si sottoposero a questa obbedienza; a sottrarsi a questo torpore ci voleva molto coraggio. Il solo ad averlo, ribellandosi alla mania di adattamento e di sottomissione, nel cinema fu Fellini che in quel festival fu completamente trascurato. Oltre ai grandi meriti di cineasta, Federico si pregiò di questo coraggio. “Anche gli artisti cominciano a prendere la parola: speriamo che i frangiflutti tengano”, scrisse un esponente della nuova censura dopo una visione privata al Quirinale di “Prova d’orchestra”, il primo film politico dell’autore de “La dolce vita”. Nel tempo kafkiano della sottomissione e della paura è giusto rendere omaggio a un artista che seppe parlare e dire cose che venivano censurate. Il film è, nel gran caos che oggi percorre il Paese, il più attuale di quanti sono stati fatti. Un’opera impegnata, ma non nel senso unico imposto dai funzionari del mondo totalitario. Fellini si comportò da vero artista: non si lasciò invischiare nella mediocrità sciropposa del conformismo, nella sonnolenza servile verso un “regime”; si rifiutava di essere un poeta erariale. Non dimentichiamoci che quando, nell’aprile del ’77, nella trasmissione “Bontà loro” di Maurizio Costanzo, Indro Montanelli lanciò vituperi contro il conformismo imperante. Il principe della televisione lanciò biasimi verso chi aveva consentito a un “individuo del genere” (Montanelli) di parlare a milioni di spettatori. Fu tale il suo impeto aggressivo che le Br si sentirono autorizzate a sforacchiare le gambe del “trampoliere”, direttore del “Giornale nuovo”, “con abbastanza piombo in corpo”, commentò François Revel, “da poter riflettere sanamente sui vantaggi della transizione democratica verso il socialismo”. Si temette che l’attacco dei frangiflutti prendesse a bersaglio le gambe di Fellini per aver diretto “Prova d’orchestra”. Chi avrebbe pensato soltanto pochi anni prima che tra censori e repressione potesse esserci relazione? Fellini non poté esserne fiero; la sinistra non amava quel film che alludeva all’Italia caotica di quegli anni, simile a quella che abbiamo oggi. Per configurare l’Italia alla deriva dovette ricorrere alla metafora. I censori non si accorsero subito che la scalcinata orchestra, disordinata, balorda, sorda agli ordini del direttore era il Paese in rovina e in dissolvimento. Il loro stupore fu grande; ricordavano i funzionari della televisione di Praga al tempo di Novotny che si accorgevano come certi film allegorici, creduti innocui, contenessero, invece, una carica dirompente e una rovente polemica soltanto quando tali pellicole venivano in occidente e da queste la stampa libera deduceva che in Cecoslovacchia qualcosa bolliva sotto il coperchio del regime. Di lì a poco esplose la “primavera di Praga”. “Prova d’orchestra” immagina che una palla d’acciaio, di quelle usate per le demolizioni, riduca in calcinacci la sala d’audizione; tra le rovine, all’imperioso comando del direttore, gli orchestrali ricominciano a suonare armoniosamente. Oggi, i frangiflutti non sono più arroganti perché hanno acquisito più potere. Nel ricordare la scomparsa di Fellini è più rispettoso riconoscere il suo coraggio civile invece di elencare tutti i ditirambi elogiativi verso un grande della cinematografia. A tanti anni di distanza è il regista più “attuale”.

MAURIZIO LIVERANI