FATEMELO DIRE
di MAURIZIO LIVERANI
LUCHINO E MARIA
Appena si è costretti a parlare di un regista italiano dell’epoca d’oro sembra indispensabile pensare subito al sublime, all’eccelso. Così è stato per Mario Monicelli che, oltre a essere stato un grande della macchina da presa, bocciò Brigitte Bardot la quale si era presentata a lui per sostenere un provino. I film di BB hanno portato nelle casse dello Stato francese l’equivalente degli introiti della casa automobilistica Renault. Ci tocca questa volta di chiarire le idee di Luchino Visconti, il grande regista che provocò irreparabili guasti alla povera Maria Denis, nota attrice dei cosiddetti “telefoni bianchi”. Nelle “lettere al Corriere della Sera”, anni fa, un lettore chiese all’autorevole Sergio Romano notizie sulla vicenda “partigiana” del regista della “Terra trema”. Visconti era uno di quegli uomini che sentono tanto forte la propria individualità (rafforzata dal titolo nobiliare) da venire trascinati, per poi dolersene, a distruggere o almeno a negare quella degli altri. Onorando il suo talento, non si deve a ogni costo porlo su un piedistallo. Maria Denis, prima di morire senza lasciare alcun necrologio, rivelò in un libro – “Il gioco della verità” (Baldini e Castoldi) – come riuscì a liberare il regista aristocratico, fornito di una buona rendita dalla Giviemme (il dentifricio di cui era il maggior azionista) dalla famigerata banda Koch. Visconti voleva essere eroicizzato dalla Resistenza. Durante l’occupazione nazista, Maria Denis, spinta dal grande amore nutrito per l’affascinantissimo cineasta, riuscì a convincere Koch a farlo rinchiudere, sotto altro nome, in un convento-prigione riservato ai detenuti politici di alto lignaggio. La riguardosità di Koch verso di lei non è mai stata accertata. Racconta la Denis: “la parola che Luchino poteva dire a costo di sminuire il fulgore del suo passato antifascista non è mai venuta. Anche tutti quelli che sapevano tacquero. Difesero la sua immagine anziché la verità e la mia persona”. L’aristocratico Luchino riversò tutta la sua riconoscenza sulla sorella Uberta. “Forse riteneva umiliante per la sua figura di resistente e di patriota essere stato salvato da un’attrice (del regime? ndr)”. Arrestata, Maria Denis restò reclusa per diciotto giorni in carcere; poi fu prosciolta in istruttoria. Un noto principe del Foro la fece liberare ma rifiutò il compenso. Aveva già provveduto la famiglia Visconti. L’implacabile vigilanza comunista voleva a ogni costo fare di lui – che nel ’43 aveva diretto “Ossessione”, tratto dal romanzo dell’americano James Cain – la prepotente personalità del cinema nuovo, utile alla predicazione togliattiana, apostolo di un cinema neorealista. Visconti filmò l’esecuzione del torturatore di Villa Triste, dove gli antifascisti venivano martoriati. Tutto era propizio al grande regista, non alla devota Maria Denis che, conosciutolo, sentì “nel suo abbraccio forte, mascolino, sensuale” di aver incontrato l’uomo della sua vita. Nella bellissima villa di via Salaria a Roma, l’attrice dei “telefoni bianchi” fu messa al corrente da Luchino dei suoi rapporti con la Resistenza e di tutto quello che si andava preparando in quei mesi. In quella villa, molti anni dopo, vidi entrare, in occasione di “Rocco e i suoi fratelli”, tre pescatori della “Terra trema” con vassoi, vestiti da camerieri con le giacchette a righe. Non dissimili a quelli, “in polpe”, che Maria Denis scrive di aver visto nel ’42 e nel ’43 nella villa dove si preparava la resistenza.
MAURIZIO LIVERANI