MARCELLO E IL MALE DI VIVERE

FATEMELO DIRE 
di MAURIZIO LIVERANI

MARCELLO E IL MALE DI VIVERE

Il 19 dicembre del 1996 ci ha lasciato Marcello Mastroianni, nato come attore nel continuo “baccaja” del cinema romanesco. Film tutti “gridati” come “Peccato che sia una canaglia” (’55) di Alessandro Blasetti con Sophia Loren e Vittorio De Sica, dove Marcello si innamora, lui tassinaro, di una ladruncola, figlia di un ladro, ricondotta sulla retta via dai “sganassoni” e dall’amore. Mastroianni era allora nel novero dei “poveri ma belli”; considerava il recitare per lo schermo un gioco abbastanza piacevole. Nello stesso anno, dominato nel cinema dal “neorealismo rosa”, sotto la guida di Luchino Visconti era il medico Astrov nello “Zio Vania” di Cechov dove tutti i personaggi gridano e piangono o ragionano; e qui il ventinovenne Marcello assimila quello “spleen” decisivo per la costruzione del suo personaggio nella vita come sulla scena e sullo schermo. La voce dell’attore perde ogni eco romanesca e si trasforma in un accento più profondo e vellutato. Visconti infuse in lui una nuova consapevolezza di attore e di uomo. Sono lontani ormai pellicole come “Le ragazze di piazza di Spagna” di Emmer e “Giorni d’amore” di Giuseppe De Santis. Sulla scena si auto-dissolve il ragazzone cinematografico. Quel pulviscolo di noia, sospeso a mezz’aria che accompagnerà per tutta la vita Mastroianni, è stato introiettato sulla scena e intravisto nel “nostro” Anton Cechov per eccellenza: Ennio Flaiano. Il vero pigmalione, dopo l’iniziazione di Visconti, è stato Flaiano e, come l’ispiratore della “Dolce vita”, l’attore non ha più manifestato l’intenzione di entrare nel cono d’ombra dei canonizzati. Se pensiamo a Mastroianni e a come lo abbiamo conosciuto in anni e anni di frequentazione lo ricordiamo quando cercava, disperatamente, conforto nell’”esilio” parigino. Amava Roma, ma non poteva tollerare il “marciume” politico che l’ha sempre ammorbata. Le interviste che rilasciava all’estero avevano una durezza da lasciar stupiti. Come quando, negli Stati Uniti, lanciò il lamento “mi vergogno di essere italiano”. Aveva notato (me lo mostrò nel ’72) un epigramma di Flaiano che dice: “Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quelli che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? E’ improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire; in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità; noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio ai sociologi, agli storici, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause; io ne subisco gli effetti. E come me pochi altri; perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la ‘loro’ verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi”. Quando si parla di decadenza dell’ingegno italiano, bisognerebbe tener conto dell’impossibilità di manifestare un pensiero originale in una società dominata dagli uomini di potere. Allorché uscì la “Dolce vita”, la stampa di sinistra dedicò al film una fredda accoglienza. Dalla Francia rimbalzarono commenti entusiastici. Mastroianni fu particolarmente colpito dall’astiosa avversione verso l’”odiato” Flaiano che deviava il discorso neorealista verso il soggettivismo. Avversione che fu riassunta dallo scrittore in questa frase: “L’arco costituzionale non ci ama”. A indebolire la fiducia di Marcello nella vita italiana contribuirono, in quegli anni, le traversie che Fellini e Flaiano subirono da parte di quella critica che accusava il loro film di ottenere un successo di evasione. I maestri della repressione erano all’erta già allora. Il commento di Mino Maccari fu: “Italiani imparate a difendervi dallo Stato”. Dopo la scomparsa, Mastroianni fu consacrato gloria nazionale proprio da coloro che non gli perdonarono di aver deviato l’attenzione dall’ortodossia neorealista. Per l’attore ci fu una canonizzazione “post mortem”.
 
MAURIZIO LIVERANI