Sono passati 70 anni dall’esodo di quella minoranza italiana che viveva nella costa giuliano-dalmata dell’Adriatico e ben 10 dall’istituzione di quel “Giorno del ricordo” che intende “riaffermare e conservare le verità e le responsabilità storiche degli eccidi delle foibe compiuti a danno dei civili italiani al confine orientale durante e dopo la seconda guerra mondiale”. Una tragedia a lungo, volutamente, ignorata e rimossa per una strumentalizzazione ideologica. Così le violenze subite da triestini, istriani, fiumani e dalmati sono passate nella dimenticanza. Per anni si è voluto ignorare l’occupazione slava (che coinvolse anche Trieste e Gorizia) del maggio-giugno del 1945 che lasciò dietro una scia di violenze, di terrore, di morti. Durante quei drammatici 40 giorni migliaia di donne e uomini italiani e sloveni (contrari al regime titino) sono stati prelevati dalle proprie abitazioni e gettati nelle foibe. Tristemente famose sono quelle di Gargaro, di Tarnova di Basovizza e Vines, usate come “tombe” anche dopo la fine della guerra. Oltre all’orrore delle foibe, si è voluto ignorare per anni anche l’eccidio di Vergarolla che sconvolse Pola. Il 18 agosto del 1946 furono fatte esplodere tutte le mine di profondità giacenti “inermi” lungo una delle spiagge più frequentate dai polesani di etnia italiana, straziando un gran numero di bagnanti. E’ ormai assodato che la strage di Vergarolla fu un attentato intimidatorio della polizia politica di Tito (compiuto per mano di Giuseppe Kovacich, agente dell’Ozna) al fine di terrorizzare gli italiani di Pola e indurli alla fuga. Simone Cristicchi, con il suo spettacolo “Magazzino 18” non solo ha messo in luce l’eccidio, (centrando la figura del dott. Geppino Micheletti che pur addolorato dalla notizia della morte dei due figlioletti continuò a prestare soccorso e ad operare le vittime dell’esplosione), ma ha anche portato in scena la violazione dei diritti di quanti furono costretti a “migrare” per salvare la propria vita. Il Trattato di pace del 10 febbraio del 1947 assegnò all’ex Jugoslavia quasi 8/9 del territorio giuliano. Nel processo di denazionalizzazione 300mila istriani e dalmati furono costretti a lasciare le proprie case, i propri beni. Mio padre, all’epoca dodicenne, ha ricordato per tutta la vita il drammatico giorno in cui i partigiani titini, armati di fucili, entrarono nella sua casa intimando alla sua famiglia di lasciare Pola entro due ore. Non si ebbe il tempo di prendere nulla, nemmeno il denaro e l’oro nascosto in cantina. Tutti i beni sequestrati ai cittadini italiani furono inclusi nel pagamento delle riparazioni belliche, tutti i beni abbandonati nel territorio furono ceduti all’ex Jugoslavia. L’Accordo di Osimo del 10 novembre 1975 assegnò all’ex Jugoslavia un’altra porzione di territorio, la famosa zona B. Da quel trattato e dai successivi accordi di Roma gli esuli istriani si sono visti negare la possibilità di rientrare in possesso dei propri beni. La questione degli indennizzi fu un’altra dolorosa pagina. Altrettanto dolorosa fu quella dell’accoglienza riservata ai profughi nella penisola: tacciati di fascismo, soffrirono non solo umiliazione e fame, ma anche l’aggressione e l’emarginazione da parte dei loro connazionali. Molti preferirono l’esilio, abbandonarono l’Italia (e l’Europa) per rifugiarsi in America; altri riuscirono, con fatica, ad integrarsi. Da una decina di anni lo Stato Italiano, con la legge-Menia, ha riconosciuto ufficialmente la tragica realtà delle foibe e dell’esodo. Sebbene in questi anni al “Giorno del ricordo” si è contrapposta una corrente negazionista che ha tentato di rimuovere la tragedia, di ripudiare la verità storica, di ridimensionare la responsabilità politica e morale degli eccidi delle foibe e dell’esodo, l’impegno delle istituzioni ha reso possibile, forse, il superamento di quella posizione e la formazione di una memoria condivisa. Meglio tardi che mai… Rimane ancora aperta però la questione dei risarcimenti…
Barbara Soffici